Fertility day e “stato di salute” della popolazione

14 Settembre 2016
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Gianfranco Sabattini

Il 22 settembre 2016 si celebrerà in Italia il primo “Fertility Day”, giornata nazionale annuale, presentata dal Ministero della salute come “punto centrale delle iniziative previste dal Piano Nazionale della Fertilità, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della prevenzione dell’infertilità e quindi della salute sessuale e riproduttiva di donne e uomini”. La giornata coinvolgerà insegnanti, famiglie, medici, farmacie, ordini professionali, associazioni, società scientifiche e istituzioni locali (Comuni e Scuole, innanzitutto) in incontri nelle città di Roma, Padova, Bologna e Catania, dove si discuterà “delle attuali possibilità delle terapie mediche e chirurgiche per curare la sterilità della coppia” e di altro ancora. L’adozione del PNF e il comunicato del Ministero non sono stati accolti benevolmente da molta stampa, da molte parti politiche e, soprattutto, dal movimento femminista, che accusa la ministra Beatrice Lorenzin di voler riproporre l’idea della donna come “fattrice della nazione”, cara all’etica sociale e demografica del ventennio fascista.
Preoccuparsi della fertilità delle coppie italiane in un momento in cui la dinamica demografica del Paese è tale da non riuscire a conservarsi costante, pensando unicamente al disagio esistenziale delle coppie che non riescono ad avere figli, è decisamente riduttivo, considerato che le cause della bassa fertilità delle coppie italiane hanno origini ben diverse da quelle riconducibili a disfunzioni fisiologiche della donna, o dell’uomo, o di entrambi. Della dinamica della popolazione del Paese ci si deve necessariamente occupare, considerando che il suo “patrimonio” demografico sta diminuendo, per via del fatto che la media del numero dei figli per coppia si è ridotto ad essere uguale a 1,3 (perché la popolazione riprenda a crescere sarebbe necessario che il numero dei figli per coppia fosse almeno uguale a 2,1, dato che 2 figli servono a reintegrare solo i genitori). Ciò deve indurre necessariamente, almeno nel medio-lungo periodo, ad adottare politiche pubbliche correttive, per evitare i danni sociali (non solo quindi quelli privati delle coppie che non riescono ad avere figli) che una non equilibrata distribuzione delle popolazione per classi di età potrebbe provocare, impedendo una stabile evoluzione del sistema sociale italiano; possibilità, questa, che i discorsi, spesso ricorrenti, sui possibili effetti compensativi di quote appropriate di immigrati, possono non rispondere, anche se validi nel breve periodo, alla necessità di assicurare, senza problemi di altra natura, una corretta e funzionale dinamica demografica, rispetto alle esigenze dello stabile funzionamento del sistema sociale.
L’evoluzione del tasso di fertilità e della sua influenza, positiva o negativa, sulla struttura della distribuzione per classi di età della popolazione di un dato Paese non può essere considerata fine a sé stessa, ma deve essere messa in relazione agli altri aspetti del sistema sociale complessivo, coi quali essa è inestricabilmente interconnessa; ciò significa che la decisione di avere o non avere figli, a parte i casi in cui l’impossibilità di averne sia di natura clinica, non è una decisone appartenente alla sfera privata, nel senso che essa è riconducibile più specificamente alla sfera pubblica.
In linea di principio, una politica pubblica che abbia per obiettivo quello di adattare nel tempo la dinamica del tasso di fertilità, in funzione di un’equilibrata distribuzione per classi di età della popolazione, in relazione alle esigenze connesse alla dinamica complessiva del sistema socio-economico, deve evidentemente evitare sia le tendenze a diminuire, che quelle ad aumentare del tasso di fertilità; ciò, al fine di impedire che, nel medio-lungo periodo, le variazioni negative o positive risultino disfunzionali rispetto alla dinamica generale del sistema sul piano sociale ed economico. Sottrarre la dinamica del tasso di fertilità allo spontaneismo delle decisioni private delle coppie, significa accettare convenientemente l’idea che l’adattamento della dinamica demografica alle esigenze di quella del sistema socio-economico non sia affidata all’autoregolamentazione del libero mercato; ciò al fine di evitare la conseguenza che, più della sfera delle decisioni private, conti quella delle decisioni di chi egemonizza il mercato, in funzione unicamente del proprio tornaconto.
La storia al riguardo, almeno con riferimento alle economie dell’Occidente capitalista, è maestra. Nella fase pre-industriale dei Paesi oggi economicamente avanzati, considerate le condizioni esistenziali dell’epoca, la popolazione si conservava tendenzialmente costante, caratterizzata da alti tassi di natalità e di mortalità e da una speranza di vita molto bassa. All’epoca, i figli costituivano una “sorta di salvadanaio”, in quanto, essendo scarse le risorse disponibili e inesistente una qualche forma di assistenza sociale, essi, i figli, rappresentavano un “piano pensionistico” per i genitori; era questa la ragione per cui le coppie, per compensare l’alta mortalità, tendevano a far nascere molti figli.
Non appena, però, le condizioni di vita sono migliorate, per effetto dell’avvio della Rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo, il tasso di mortalità si è abbassato, mentre è rimasto alto quello di natalità, per via del fatto che l’attrazione sessuale, come sosteneva Thomas Malthus, risultava incomprimibile. La conseguenza è stata un incremento della popolazione in Europa, ben al di sopra delle disponibilità materiali, quindi la comparsa del fenomeno, socialmente negativo, del pauperismo; per contenere tale fenomeno, nel 1795 in Inghilterra è stato adottato il “sistema Speenhamland”, che prevedeva la corresponsione di una sorta di “reddito di base” ai poveri, senza che fosse considerato congiuntamente, sia il fatto che le migliorate condizioni economiche li avrebbe motivati ad avere figli, sia la necessità di contenere le cause dell’alto tasso di mortalità.
Il sistema Speenhamland è stato criticato da Malthus e da David Ricardo, in quanto, a parere loro, l’assistenza aveva l’effetto di determinare una propensione degli assistiti a non lavorare e perciò a far diminuire le produzione delle risorse necessarie per il mantenimento di una popolazione crescente, facendo nascere in tal modo il pericolo di rivolte sociali. Una rivolta sociale si è verificata effettivamente nel 1830, per cui il sistema Speenhamland è stato abolito e la regolazione della dinamica demografica di nuovo “restituita” al libero mercato. Sta di fatto che, durante la rivoluzione industriale, l’aumento della qualità della vita nei Paesi sviluppati ha prodotto una corrispondente rivoluzione demografica; in Europa, infatti, nel corso del XIX secolo la popolazione è raddoppiata, passando da 203 milioni di individui nel 1800 a 408 milioni nel 1900 ed a 728 milioni nel 2000.
Il continuo miglioramento delle condizioni di vita ha però influenzato, attraverso il mercato, la scelta delle coppie a controllare il numero dei figli, nel senso che le famiglie, per conservare un adeguato livello di vita, hanno adeguato le nascite alle possibilità offerte loro dal mercato. L’aumento delle difficoltà a livello distributivo e il susseguirsi dell’instabilità occupazionale hanno indotto, in modo diverso nei vari Paesi capitalisti, ad adeguare la “volontà” di avere figli alle opportunità che il mercato offriva; opportunità che nel corso del XX secolo non si sono allargate e stabilizzate, malgrado l’introduzione di un sistema di sicurezza sociale universale, sia per l’instabile funzionamento del sistema economico, sia per il diffondersi della concentrazione del reddito e della ricchezza, sia, infine, per la comparsa del fenomeno della disoccupazione irreversibile.
Tutto ciò ha fatto sì che una parte della popolazione dell’Italia diventasse troppo povera per continuare a desiderare di avere figli, per cui, in assenza di una appropriata politica demografica, da tempo si è consolidato un trend negativo del tasso di fertilità, sino a creare un pesante squilibrio della distribuzione della popolazione per classi di età, che ha aggravato la capacità delle classi in età lavorativa a “sopportare” il costo di mantenimento delle classi di età in stato di quiescenza, i cui membri sono divenuti sempre più numerosi per via dell’allungamento della speranza di vita.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, una parte crescente della popolazione italiana si è impoverita a tal punto, che persino l’esistenza del welfare State realizzato non è stata sufficiente a conservare nelle coppie una stabile propensione ad avere figli. A ciò deve aggiungersi anche la particolare condizione della donna, la sua posizione sul mercato del lavoro è sempre stata molto debole: in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza lavoro e, per quelle che lo hanno, il reddito percepito è inferiore a quello della forza lavoro maschile. Il welfare State italiano non ha “coperto” in modo adeguato la categoria del lavoro femminile; a differenza di altri Paesi europei, come la Francia e la Svezia, che per uscire dalla crisi di natalità di cui soffrivano, non hanno fatto ricorso a campagne promozionali sul tipo di quella promossa dal Ministero della salute, ma hanno semplicemente reso meno iniquo il welfare State, a vantaggio delle famiglie a basso reddito; la Gran Bretagna e la Germania hanno fatto lo stesso.
Gli argomenti sostenuti in passato, successivamente dimostratisi infondati, contro il reddito di base previsto dal sistema Speenhamland sono stati utilizzati solo per abolire uno dei primi tentativi di governare fenomeni sociali indesiderati.
A oltre un secolo di distanza, l’introduzione del welfare State si è dimostrato, soprattutto in Italia, non all’altezza per correggere tutti i fenomeno sociali ed economici negativi (fra i quali la dinamica della popolazione), rispetto ad una stabile evoluzione del sistema nazionale. Negli ultimi anni, il reddito di base (o reddito di cittadinanza) ha fatto di nuovo la sua comparsa, ad integrazione del welfare State, nei programmi politici di molti Paesi; sarebbe ora che, anche in Italia, in luogo della celebrazione annuale del “Fertiliy Day”, si iniziasse seriamente a considerare la possibilità di introdurre, almeno in via sperimentale, un reddito di base, incondizionato rispetto allo stato occupazionale, in favore delle donne, sia pure nell’arco della loro età fertile; sarebbe questa forse la misura che, più di ogni altra, potrebbe concorrere, nella fase attuale, a migliorare la propensione delle coppie ad avere figli, quindi a migliorare lo “stato di salute” della popolazione, nell’interesse di tutti.

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