Germania tra nazionalismo, xenofobia e neoliberismo

4 Maggio 2017
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Gianfranco Sabattini

 

Si sostiene, non senza fondamento, che alcuni dei limiti che caratterizzano la società politica e quella civile contemporanee della Germania siano dovuti al fatto che molti, tra i protagonisti della ricostruzione della democrazia, provenivano dalle file delle organizzazioni naziste; pur tenuto conto che ciò che sopravviveva delle generazioni che hanno vissuto l’esperienza nazista è ora pressoché totalmente scomparso, resta tuttavia il fatto che, a differenza dell’Italia, la Germania non ha vissuto la “purificazione” della “guerra civile” tra le forze della reazione e quelle democratiche. Ciò giustifica perché è plausibile pensare che l’etos pubblico tedesco sia ancora parzialmente intriso di quei valori che, nella prima parte del secolo scorso, hanno legittimato l’ascesa al potere del nazismo.
In sostanza, a sostenere questa tesi è Alessandro Somma, in un articolo pubblicato sul n. 1/2017 de ”il Mulino”, col titolo “Neoliberalismo e xenofobia nella Germania unita”; Somma, docente di Scienza politica all’Università di Torino, osserva anche che l’influenza esercitata da molte personalità non estranee al nazismo nella ricostruzione della Germania del dopoguerra è stata resa possibile dal ruolo giocato “dal clima di Guerra fredda che nel nome dell’anticomunismo ha condotto a trascurare, se non a valorizzare, il passato nazista di molti cosiddetti servitori dello Stato”. In tal modo, molti di costoro avrebbero legittimato la formazione di gruppi politici schierati sul fronte della destra radicale e neonazista che, dopo la riunificazione, avrebbero contribuito “ad alimentare un terreno fertile per lo sviluppo e la diffusione di un clima di nostalgia per il regime hitleriano, e più in generale del nazionalismo e della xenofobia”.
I fattori scatenanti, sia del nazionalismo, che della xenofobia, sono stati – afferma Somma – diversi: innanzitutto, il flusso di migranti verso la Germania unificata, provocato dal crollo politico dei Paesi del “socialismo reale”; in secondo luogo, le conseguenze della riunificazion, sia quelle dirette, originate dal fatto che i nuovi arrivati hanno abbassato le opportunità occupazionali a danno dei cittadini tedeschi, sia quelle indirette, nate dalle riforme strutturali con le quali Berlino, cercando di fare fronte alla nuova situazione sociale, ha dovuto accollarsi un aumento dell’indebitamento pubblico. Il disagio sociale che ne è seguito ha influenzato le stesse forze politiche democratiche, orientandole a riformare “la disciplina costituzionale del diritto di asilo” che, all’origine, era stata “regolata, come reazione al passato nazista, dalla Legge fondamentale tedesca in modo decisamente più consono” a quanto sull’argomento richiedevano le “fonti internazionali”.
Tuttavia, a parere di Somma, la xenofobia non è stato l’unico movente a giustificare l’avanzata delle forze radicali di destra; oltre ad essa, vi sono state anche le modalità con cui la Germania ha voluto realizzare l’unificazione, risultate la causa “dei notevoli livelli di disoccupazione raggiunti sul finire degli anni Novanta”; tali livelli, espressi da quasi cinque milioni di disoccupati, sono all’origine dell’aumento del debito pubblico che – afferna Somma –, tra il 1990 e il 1997, è passato dal 41,3% al 58,9% del PIL. In questo clima, nel 1998, il cancelliere cristiano-democratico della riunificazione, Helmut Kohl, ha perso le elezioni per aver presentato un programma di stampo neoliberale, che prevedeva il superamento della crisi occupazionale e debitoria facendo appello ai principi dell’”economia dell’offerta”, ovvero attraverso il sostegno dell’offerta complessiva del sistema economico realizzato con la diminuzione del costo del lavoro e della pressione fiscale.
Alla destabilizzazione dall’economia tedesca ha contribuito anche la politica del partito socialdemocratico, vincitore delle elezioni del 1998, la cui segreteria, guidata da Oskar Lafontaine, pur avendo presentato un programma che proponeva una politica di natura keynesiana incentrata sul sostegno della “domanda interna”, non è riuscita ad evitare che il cancelliere succeduto a Kohl, Gerhard Schröeder, ne attuasse una, sempre keynesiana, basata però sul sostegno delle esportazioni, assunte “come principale motore di crescita”. Nonostante tutto, sottolinea Somma, il debito pubblico ha continuato a crescere, raggiungendo nel 2005 il 67,1% del PIL, mentre il deficit corrente del settore pubblico è risultato pari al 3,3% dello stesso PIL, fuori perciò dai parametri di Maastricht, con il peggioramento della disoccupazione e dei dati sulla distribuzione della ricchezza; tali fatti “hanno rispecchiato il rovesciamento del compromesso keynesiano derivato dalle politiche neoliberali condotte dagli esecutivi a guida socialdemocratica”.
Dopo Schröeder, è iniziato il cancellierato di Angela Merkel nella più assoluta continuità dell’indirizzo della politica economica del passato, volta a supportare in termini sempre più efficaci l’orientamento dell’economia all’esportazione e con esso il contenimento del “compromesso keynesiano, reso ancor più rigido dall’adozione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio; inoltre, anche con i governi della Merkel sono mancate le correzioni degli squilibri distributivi ereditati dal passato, con la conseguente formazione di una “sacca di persone” a rischio di povertà, mentre sono state riservate ingenti somme per l’istituzione di un fondo di stabilizzazione del mercato finanziario, per fronteggiare gli esiti della Grande Depressione iniziata nel 2007/2008.
Il quadro interno della Germania, compiutosi con l’avvento dei governi della Merkel, ha costituito, a parere di Somma, la base che consente di “valutare i sentimenti diffusi presso la popolazione tedesca, e con essi il successo della destra xenofoba, nazionalista, più o meno consapevolmente neonazista”, che stanno caratterizzando la vita politica della Germania degli ultimi anni. I sentimenti nazionalisti e xenofobi suscitati dalle politiche di accoglienza, attuate per fronteggiare i flussi migratori richiedenti asilo a vario titolo, hanno favorito la formazione di movimenti estremisti, come “Pegida” (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes: europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente) e come la formazione politica “Alternative für Deutschland” (AfD) che, in tutte le elezioni in cui si è presentata in molti Länder a partire dal 1914, ha conseguito risultati contenuti tra il 10 e il 25%.
Alle elezioni europee del 2014 AfD ha ottenuto il 7% dei consensi, sulla base di un programma che, oltre a rifarsi ai temi nazionalisti e xenofobi propri dei movimenti di estrema destra, è stato “incentrato sull’abbandono dell’euro e sulla conduzione di politiche economiche di matrice neoliberale”, ma anche sul mantenimento e rafforzamento del capitalismo “come ordine economico che la politica deve sostenere e sviluppare”. Il programma di AfD, a parere di Somma, ha subito, tuttavia, successivi adattamenti all’evoluzione della situazione politica ed economica, sia nazionale, che internazionale, proponendo la necessità per la Germania di una politica che sia volta, non tanto al ricupero del “compromesso keynesiano”, ma alla protezione del “mercato interno dalla competizione internazionale”, al fine di evitare che sia esposto alle conseguenze della “libera circolazione dei fattor produttivi”.
In tal modo, AfD ha enfatizzato la richiesta di “un ritorno alla sovranità statale contro la globalizzazione dei mercati”, con la reinterpretazione in termini nazionalistici del neoliberismo, implicante una rinuncia al ricupero pieno dei diritti sociali, in parte sacrificati dai governi di Kohl, Schröeder e Merkel; in altri termini, AfD, pur presentando la comune vocazione con le altre formazioni della destra radicale europea e ricorrendo al nazionalismo e alla xenofobia, si differenzia da queste ultime formazioni per il fatto che la sua azione politica non è volta a ricuperare alcuni valori propri della tradizione del comunitarismo, ma ad affermare una difesa degli interessi nazionali imperniata “intorno al funzionamento del mercato”. Il tutto pensato – afferma Somma – come espressione dello Stato nazionale e della sua potenza; motivo, questo, per cui, a parere dello stesso Somma, il sostegno dell’ordine capitalista si manifesterebbe “anche e soprattutto come supporto nell’arena dei mercati internazionali, come nazionalismo economico”.
Questa visione, pur non invocando l’azzeramento delle libertà politiche, per un più facile controllo di quelle economiche, a giudizio di Somma, possiede in sé alcune implicazioni che hanno preparato l’”avvento del fascismo”, quali la denigrazione della democrazia parlamentare, da sostituire con “una concezione cesaristica e plebiscitaria del potere che, se non azzera le libertà politiche, di certo favorisce una loro decisa compressione”. Tuttavia, Somma conclude la sua analisi osservando che non occorre certo considerare i valori reazionari dei quali è portatrice AfD, per evocare il fantasma del fascismo o di un passato della Germania che ritorna; è sufficiente, sempre secondo Somma, riflettere sulle modalità scelte da AfD per rimediare alla perdita di un futuro fortemente compromesso, per via del fatto che, al presente, “le persone sono ridotte a mere appendiciti di un ordine economico che è incapace di produrre uguaglianza, ma che l’ordine politico ha reso in condizionabile e indiscutibile”.
Ciò che ha compromesso il futuro della società tedesca, come pure di tutte le società dei Paesi membri dell’Unione Europea sarebbero, secondo Somma, le istituzioni internazionali che, nel governo della globalizzazione, si sono mostrate inefficaci e dannose; non resterebbe, perciò, che accettare l’idea che il ricupero del ruolo dello Stato-nazione, indebolito dal processo di internazionalizzazione delle economie nazionali, ridiventi lo strumento per il rilancio del “compromesso keynesiano”, ricollocando “la persona al centro delle politiche locali e globali”, come unico e valido baluardo contro il possibile ritorno della “parte peggiore” del secolo scorso.
D’accordo, ma la prospettiva del ricupero dello Stato-nazione per il rilancio del “compromesso keynesiano” continuerebbe pur sempre a contenere in sé “residui” nazionalistici (non va dimenticato che le politiche keynesiane, attuate all’interno di economie integrate nel mercato mondiale, sono sempre state accusate di “pretese” mercantlistiche e, perciò, nazionalistiche), né consentirebbe di evitare, di fronte ad una mancata regolazione della globalizzazione, l’avanzare delle formazioni dell’estrema destra. La causa reale del diffondersi dei movimenti della destra nazionalista e xenofoba, è quindi l’incapacità di riformare secondo modalità diverse da quelle sinora seguite, le regole del mercato mondiale; sin tanto che tali regole non saranno cambiate, il riflusso all’interno dei singoli Stati degli effetti negativi del “libero mercato globale” continuerà a rafforzare la prospettiva di una continua espansione dei movimenti nazionalisti e xenofobi.
E’ su questo punto che la Germania sta assumendo una responsabilità di dimensioni preoccupanti; la sua reiterata volontà a non volersi piegare all’urgenza di condividere un’azione unitaria con gli altri Paesi dell’Unione, per un contenimento degli “animal spirit” del mercato mondiale, è paradigmatica; anziché approfondire la cooperazione europea, ai fini di una più efficace regolazione delle prevalenti modalità in presenza delle quali si sono svolti sinora i rapporti commerciali internazionali, la Germania, con in testa la sua Cancelliera, ha mostrato d’essere propensa a schierarsi in difesa della globalizzazione, così come essa si è affermata; lo dimostrano le minacce ritorsive che la Merkel non manca mai di rivolgere al nuovo presidente degli Stati Uniti, al solo fine di scongiurare l’attuazione, da parte del neoletto, di alcune delle sue promesse elettorali, riguardanti possibili restrizioni del mercato globale senza regole, verso il quale, invece, la Germania ha orientato strutturalmente con successo la propria economia.

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