Costituzione italiana vs. Trattati europei

20 Settembre 2017
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Gianfranco Sabattini

Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche, ha pubblicato sul n. 5/2017 di “MicroMega” un articolo controcorrente, dal titolo “’Per la contraddizion che nol consente’. Ovvero dell’incompatibilità fra Trattati europei e Costituzione italiana”. Questo scritto riassume il contenuto del libro “Costituzione italiana contro Trattati europei. Un conhlitto inevitabile (Imprimatura). Un tema, questo, che a parere dell’autore “è rimasto ai margini anche dello scontro referendario dello scorso dicembre”.
La mancata riflessione su questo aspetto importante della Costituzione repubblicana non sarebbe stata casuale; ciò, perché l’eventuale riconoscimento dell’esistenza della contraddizione avrebbe implicato una “bocciatura senza appello della strategia politica ‘europeista’, condivisa da decenni dai partiti politici italiani, sulla cui base sono state costruite carriere politiche, nuove narrazioni e un senso di appartenenza in cui molti a sinistra, dopo il 1989, hanno visto una confortante ancora di salvezza”; per quanto quell’ancora abbia poi tirato a fondo “i diritti dei lavoratori e dei cittadini previsti dalla nostra Costituzione”. Per evidenziare l’esistenza della contraddizione tra Costituzione e Trattati europei, Giacché passa ad effettuare un confronto tra i “valori giuridici” che sono alla base, sia della prima che dei secondi.
La Costituzione italiana – afferma Giacché – rappresenta “una delle varianti di quel modello di ‘capitalismo regolato’ o ‘interventista’ […], prevalso nell’immediato dopoguerra in molti Paesi, che affida allo Stato un ruolo importante nella regolazione dell’attività economica”; in questa variante, sempre a parere di Giacché, il capitalismo regolato si unirebbe a un “concetto dinamico di democrazia progressiva”, in virtù del quale, il regime politico democratico costruito su di esso avrebbe il “compito di promuovere l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, visti come termini indissolubili”. Al riguardo, un ruolo fondamentale è assegnato al lavoro, considerato che in uno dei Principi fondamentali della Carta è statuito che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
E’ stata una specifica volontà dei Padri costituenti a voler sottolineare l’importanza, specificandola nella Costituzione, del “diritto al lavoro”, da garantire attraverso il perseguimento del pieno impiego; in questo modo – chiarisce Giacché – sarebbe stato stabilito il “nesso tra realizzazione del diritto al lavoro e attuazione delle democrazia costituzionale”, come peraltro risulta dalle parole di uno dei “Padri”, Lelio Basso, il quale, nel corso del dibattito alla Costituente, ha esplicitamente dichiarato che “finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia”.
La dichiarazione di Basso varrebbe, a parere di Giacché, a dimostrare non solo la centralità che il diritto al lavoro assume nella Carta repubblicana, ma anche quella dell’ulteriore disposto costituzionale, anch’esso incluso tra i Principi fondamentali, che stabilisce che è “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica ed economica e sociale del Paese”.
Di fatto, conclude Giacché, ciò comportava che solo attraverso la piena soddisfazione del diritto al lavoro e di quello ad una rimunerazione adeguata sarebbe stato possibile garantire la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, nonché la loro effettiva partecipazione alla vita democratica. Sarà, poi, un altro Padre costituente, Palmiro Togliatti, ad affermare che, ricorda Giacché, una volta statuito a livello costituzionale il diritto al lavoro, diventava necessario indicare anche il “metodo generale” col quale il nuovo Stato democratico doveva garantire i nuovi diritti. A questo obiettivo, la Costituzione repubblicana provvede con gli articoli relativi ai “Rapporti economici”, i quali prefigurano il “metodo” per dare concreta attuazione a quanto stabilito nei Principi fondamentali.
Passando a considerare il “capitalismo disegnato dai Trattati europei”, Giacché afferma che, almeno dal Trattato di Maastricht in poi, la sua forma è stata disegnata in modo molto diversa da quella che hanno avuto “in mente i nostri costituenti”; per la governance del capitalismo europeo sono stati previsti principi diametralmente opposti a quelli sui quali è stato fondato il “capitalismo regolato” della Costituzione italiana; il capitalismo europeo, infatti, è stato fondato sul libero svolgersi delle forze di mercato, su un ruolo minimo dello Stato (solo per contrastare l’instabilità del potere d’acquisto della moneta, la cui causa veniva rinvenuta nell’eccesso di moneta in circolazione e nell’alto costo del lavoro) e, infine, sulla necessità che la Banca centrale fosse indipendente dagli stati di bisogno dei governi (per sottrarre a questi ultimi le risorse finanziare necessarie per finanziare l’intervento pubblico in economia). Liberalizzazione dei mercati, stabilità dei prezzi, indipendenza della Banca centrale sono dal punto di vista europeo principi sovraordinati, rispetto ad ogni altro vigente all’interno dell’area economica dei Paesi membri dell’Eurozona.
Rispetto a quanto prefigurato dalla Costituzione italiana, nel capitalismo disegnato dai Trattati europei – afferma Giacché – “la piena occupazione” e il “progresso sociale” seguono e non precedono l’”obiettivo della stabilità dei prezzi”. Il fatto che tale principio sia stato assunto come obiettivo prioritario non è, a parere di Giacché, casuale; ne è prova il fatto che nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nella parte riguardante la politica economica e monetaria, è affermato a chiare lettere che, ai fini del rispetto del buon funzionamento del mercato interno, la governance dell’Unione deve essere fondata sull’adozione di una un’unica politica economica, fondata sullo “stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri” e “sulla definizione di obiettivi comuni”, quindi attuata in conformità al principio di un’economia di mercato aperta alla libera concorrenza.
Dopo Maastricht, con la costituzione dell’Eurozona e l’adozione dell’euro, la politica economica comune ha incluso quella monetaria e quella del cambio, aventi come obiettivo principale il mantenimento della stabilità dei prezzi, per una governance dell’Eurozona e del mercato unico, nella prospettiva di un’economia di mercato aperta al principio di concorrenza. Inoltre, “la priorità attribuita alla stabilità dei prezzi – afferma Giacchè – ha portato a rifiutare, in quanto potenzialmente inflazionistiche, politiche attive del lavoro e più in generale politiche di stimolo all’economia”.
Il divieto di attuare interventi a sostegno dell’economia in crisi ha rivelato tutti i suoi limiti devastanti dopo lo scoppio, nel 2007/2008, della Grande Recessione: non solo perché ha imposto, per i Paesi i cui conti pubblici presentavano pesanti disavanzi, come l’Italia, l’obbligo di attuare politiche di austerità e di taglio della spesa pubblica; ma anche perché, a livello europeo, si è proceduto ad un peggioramento progressivo dei cosiddetti “parameri di Maastricht”, con l’adozione del “fiscal compact”. Quest’ultimo ha comportato, prima, restrizioni relative al rapporto deficit/PIL ed a quello debito pubblico/PIL, e successivamente l’obbligo del pareggio di bilancio, recepito con norme di rango costituzionale; nel caso dell’Italia, ciò è avvenuto mediante la riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione, col quale è stato stabilito che “il ricorso all’indebitamento è consentito” solo nel caso in cui si debbano contrastare gli effetti dei “cicli economici” avversi, mediante politiche economiche giudicate adeguate dalla Commissione europea.
Il “metodo” seguito della Commissione è la dimostrazione definitiva, per chi ancora nutrisse dei dubbi, dell’incompatibilità esistente fra i Trattati europei e la Costituzione italiana; per rendersene conto, basta seguire la procedura adottata dalla Commissione per il giudizio di adeguatezza delle politiche di bilancio dei Paesi membri dell’Eurozona: si tratta di un “metodo”, descritto puntualmente da Giacché, che conduce al calcolo dell’indebitamento ordinario consentito ad uno Stato, quando colpito dagli esiti di un ciclo economico avverso. La Commissione procede al calco dell’”output gap”, ovvero alla stima della differenza tra il PIL reale e quello potenziale; correlato quest’ultimo al “tasso di disoccupazione di equilibrio”, compatibile con la conservazione della stabilità dei prezzi.
Nel caso dell’Italia, precisa Giacché, tra il 2011 e il 2016 “vi è stato un continuo riallineamento verso l’alto delle stime del tasso di disoccupazione d’equilibrio”, nel senso che la stima per il 2011 è stata del 7,5%, per risultare pari a circa l’8,5% nel 2012 e “drasticamente peggiorare” nel 2013 (10,4%), nel 2015 (11,0%) e nel 2016 (11,4%); solo per il 2017 la stima è leggermente migliorata, essendo risultata pari al 10,9%. La metodologia seguita dalla Commissione, che “subordina l’obiettivo di ridurre la disoccupazione (e l’intervento rivolto a tal fine) all’obiettivo di contenere l’inflazione, è perfettamente coerente con i Trattati europei, in cui la stabilità dei prezzi è sovraordinata all’obiettivo della piena occupazione”, mentre non lo è nell’ordinamento giuridico prefigurato dalla Costituzione italiana. Da ciò consegue che la riscrittura dell’articolo 81 della Carta risulta perfettamente coerente con l’ordinamento giuridico dei Trattati europei e, proprio per questo, contraddittoria riguardo al “rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione”.
Secondo Giacché, l’articolo 81, oltre che essere un corpo estraneo al resto della Costituzione, è anche “un cuneo pericolosissimo inserito al proprio interno”; ciò perché la regola del pareggio del bilancio colpisce, non solo i salari e i possibili livelli occupazionali, ma più in generale l’intervento pubblico in economia, per il perseguimento delle finalità prescritte dalla Costituzione. La bocciatura dell’ipotesi di riforma costituzionale del Governo-Renzi del dicembre del 2016 può essere pertanto intesa come atto di resistenza popolare alla pretesa di subordinare l’ordinamento giuridico nazionale a quello dei Trattati europei, ma anche come rinvio alla “questione più fondamentale della compatibilità fra Trattati europei e Costituzione italiana”.
Giacché osserva che il problema della contraddittorietà tra i due ordinamenti giuridici, quello europeo e quello nazionale, viene di solito ignorato dall’establishment italiano con varie tattiche elusive, la principale delle quali è quella di ammettere l’esistenza di problemi d’incompatibilità, ma di affermare “che essi possono essere risolti puntando all’unione politica, o a passi intermedi quali la creazione di un budget europeo dotato di risorse più ingenti e così via”. Secondo Giacché, questo atteggiamento è proprio “di chi pensa che i mali che oggi affliggono l’Europa si risolvano con ‘più Europa’”.
Il problema è per Giacchè un altro, che può essere risolto, non attraverso “più Europa”, ma con “quale Europa” si vuole e con “quali valori e finalità” la si vuole. La conservazione dello status quo va rifiutato; se ha da esservi “più Europa”, occorre che essa sia riproposta sulla base di un “cambiamento di direzione”, ovvero, osserva Giacché, nella “direzione indicata dalla nostra Costituzione. Ciò consentirebbe, innanzitutto di riprendere un cammino interrotto dall’establishment italiano, allorché ha deciso di risolvere i problemi sociali ed economici del Paese ricorrendo a un “vincolo esterno”, pagato al prezzo dell’interruzione del processo di crescita, del sostegno dell’occupazione e dell’attuazione di una condivisa equità sociale. In secondo luogo, il ricupero dello spirito della Costituzione italiana rappresenterebbe un valido ostacolo alla costruzione di un modello di capitalismo europeo, ispirato al laissez-faire e alla negazione di ogni ruolo positivo dell’intervento pubblico in economia. Tornare alla Costituzione – conclude Giacché – significherebbe “riprendersi il diritto di attuare politiche economiche diverse da quelle imposte dalla dogmatica neoliberale che impronta i Trattati europei”; in altre parole, occorrerebbe orientarsi a quella forma di capitalismo d’ispirazione keynesiana, che si era affermata in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale e che era valsa a garantire trent’anni di crescita stabile delle economie dei Paesi europei e un’equità distributiva largamente condivisa.
Difficile non concordare con il wishful thinkin di Giacché; ciò che rende la sua ipotesi fortemente utopistica è che essa non tiene conto del fatto che le condizioni, non solo politiche, ma soprattutto economiche, esistenti all’indomani del secondo conflitto mondiale sono radicalmente cambiate. In particolare, l’ipotesi di Giacché non tiene conto della presenza di un “convitato di pietra”, qual è la globalizzazione. E’ vero che quest’ultima e i valori neoliberali che l’hanno sottesa sono responsabili della crisi del 2007/2008, ed è anche vero che alla logica della globalizzazione si sono aperti, soprattutto dopo Maastricht, i Trattati europei, con tutte le conseguenze negative narrate da Giacché. Cionondimeno, il ritorno alla Costituzione repubblicana, per sottrarre l’Italia agli esiti negativi della subalternità del suo ordinamento giuridico a quello prefigurato dagli attuali Trattati europei, significherebbe optare per una via autarchica, i cui esiti negativi sarebbero di gran lunga superiori ai vantaggi.
Parrebbe maggiormente vantaggioso per l’Italia un atteggiamento molto più fermo e critico nei confronti dei partner europei, al fine di fare loro accettare un reale cambiamento di direzione nel processo di unificazione politica dell’Europa, aprendo il cambiamento all’accettazione degli valori e degli obiettivi della nostra Costituzione, in quanto “variante più avanzata” del capitalismo regolato e interventista prevalso nel secondo dopoguerra.
Posto che l’ipotesi avanzata da Giacché possa avere successo, riscrivendo i Trattati europei secondo lo spirito della Costituzione italiana, occorrerà però considerare che l’intera Europa “riorientata” dovrà confrontarsi col resto del mondo, in una prospettiva di concorrenza globale, con un sostenuto progresso tecnologico, destinato nel tempo a creare una disoccupazione irreversibile.
Pertanto, il maggiore impegno dell’Italia per una “nuova Europa” implicherà che si discuta, più di quanto è stato fatto sinora, dell’opportunità di rimuovere dalla Costituzione repubblicana gli obiettivi che non potrà “onorare”, spostando in particolare la riflessione dal “diritto al lavoro” al “diritto al reddito”; fatto, quest’ultimo che implicherà la riformulazione, non solo degli attuali “Principi fondamentali”, ma anche degli articoli che disciplinano i “Rapporti economici”.

2 commenti

  • 1 DIBATTITO su LAVORO e REDDITO GARANTITO. Verso il Convegno sul Lavoro del 4-5 ottobre | Aladin Pensiero
    21 Settembre 2017 - 09:58

    […] il presente post (politiche attive per il lavoro) e il recente articolo di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi, ripreso da Aladinews. REDDITO MINIMO, DIGNITA’ ZERO Intervista a Stefano Zamagni di VALERIA […]

  • 2 Franco Meloni, direttore Aladinews
    21 Settembre 2017 - 10:19

    DIBATTITO su LAVORO e REDDITO GARANTITO. Verso il Convegno sul Lavoro del 4-5 ottobre 2017

    Politiche attive per il lavoro o Reddito di cittadinanza (nelle diverse denominazioni e varianti)? Sono due impostazioni radicalmente contrapposte, alternative, salvo minime seppure importanti conciliazioni. Se ne discuterà al Convegno sul lavoro del 4-5 ottobre p.v. Le due posizioni * pervadono rispettivamente da una parte l’intervista all’economista Stefano Zamagni
    (di VALERIA TANCREDI su U! magazine) che privilegia le politiche attive per il lavoro rispetto al reddito garantito, dall’altra il recente articolo di Gianfranco Sabattini (Costituzione vs. Trattati europei) su Democraziaoggi, ripreso da Aladinews.
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    * Dal documento di presentazione del Convegno sul Lavoro. (…) Se la dichiarazuione dell’89 rivoluzionario fra i diritti “naturali e imprescrittibili” poneva la libertà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione, nonché la proprietà, mentre il lavoro veniva considerato sotto l’aspetto negativo del divieto di ostacoli alla sua libera esplicazione, nella nostra Carta l’art 1 accoglie ed enuncia una concezione generale di vita secondo la quale deve vedersi nel lavioro la più efficace affermazione della personalità dell’uomo, perché nel lavoro ciascuno riesce ad esprimere la propria capacità creativa. Il lavoro, dunque, non fine a sé né mero strumento di guadagno, ma mezzo necessario per l’affermazione della persona e per l’adempimento dei suoi fini spirituali. Oggi a questa concezione se ne accompagna un’altra che non nel lavoro vede la realizzazione della personalità, ma nel possesso di un reddito garantito.
    Diritto al lavoro o diritto al reddito? Due visioni non collimanti anche se, forse, non antitetiche. Ma anche su questo dilemma, centrale nel dibattito pubblico attuale, il convegno vuole indagare.
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    REDDITO MINIMO, DIGNITA’ ZERO
    Intervista a Stefano Zamagni
    di VALERIA TANCREDI su U! magazine
    – Il discorso pronunciato da Bergoglio all’Ilva di Genova lo scorso maggio ha riaperto il dibattito sul reddito di cittadinanza. Abbiamo intervistato l’economista Stefano Zamagni, che avverte: “si tratta della più bella trovata del pensiero neoliberista, i soldi finirebbero tutti nel girone del consumo e a quel punto le politiche attive per il lavoro verrebbero definitivamente dimenticate”.

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