Che belle le telefonate con Francesco!

2 Agosto 2018
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28 Dicembre 2017
Andrea Pubusa

Gente, sapete cosa avrei fatto adesso se fossimo indietro di una settimana? Avrei chiamato Francesco al telefono. Così per salutarlo, chiedergli della salute e parlare del più e del meno. Ma - direte - potresti disturbarlo, essere invadente. Neanche per sogno! Fra noi c’era un collaudato linguaggio simbolico e convenzionale. Millimetricamente presciso. Se lui voleva che lo chiamassi più tardi mi diceva: “Goppai, seu pulendi sa tuedda de su perdusemini” (”compare sto pulendo la piazzuola del prezzemolo“). Lavoro non lungo e faticoso, quindi potevo chiamare dopo un’oretta. Se invece ne aveva per molto: “Goppai, scusirimi, ma deppu arrigoli e accorrai is crabas“  (”Compare mi scusi, devo raccogliere e portare le capre nel loro recinto” ). E se ne aveva per molti giorni? “Goppai, Santinu s’intendiri mali, deppu pensai deu a su tallu de is crabas e a su bestiamini, du tzerriu deu candu sei liberu” (”Compare, Santino (l’aiutante, un tempo si direbbe il servo pastore, su tzeraccu), si sente male, devo pensare io al gregge di capre e al bestiame, la chiamo io quando son libero“). Erano messaggi simpatici, come simpatico era lui, che garbatamente, ma senza possibilità di replica, regolava le nostre telefonate.
Lo avevamo costruito in tanti anni questo linguaggio. Intanto ho dovuto penare per riuscire a instaurare con lui il comparatico. Lui aveva già un compare, Antonio Solinas (“goppai Solinas” o “goppai Antoni”), e forse gli sembrava eccessivo averne due. In Sardegna il comparatico è un vincolo sacro, una legame spirituale, un titolo inviolabile e più stretto dell’essere fratelliFrancesco, nella sua profonda cultura sarda queste cose le sapeva, e le prendeva sul serio. Era serio, Francesco, anche nella cose apparentemente scherzose! E poi probabilmente all’inizio, quando io mi proponevo, lui non mi considerava all’altezza. Occorreva avera una conoscenza del piccolo paese e delle attività agrarie e pastorali. Non potevi diventare “goppai” se eri cittadino, se non padroneggiavi il sardo, se non conoscevi il mondo rurale. Così mi sono, di buon grado e con molto scrupolo e applicazione, sottoposto ai suoi silenziosi e non confessati esami, finché un bel giorno fu lui a chiamarmi finalmente “goppai“. Ce l’avevo fatta! E così alla conversazione amichevole e simpatica, ne abbiamo aggiunto una più affettuosa. E siccome entambi conoscevamo il significato del comparatico nei nostri paesi, da quel momento il nostro vincolo si è rafforzato, molto più dell’amicizia.
E con i nuovi mezzi di comunicazione? Anche le nostre mail erano scritte rigorosamente in madrelingua. E in quella lui esprimeva pensieri arguti e scherzosi, ma anche pensieri seri e incazzature terribili contro i mascalzoni e le mascalzonate di turno. Il linguaggio fra noi era sempre molto rispettoso, perché essere “goppais”, in Sardegna, “teni su santuanni“, per la sua sacralità, comportava anche un mutamento del linguaggio nei rapporti. Gli amici e le amiche, dopo aver contratto il vincolo del comparatico, prendevano a darsi del lei, anzi del voi, alla spagnuola. E così lui nelle mail mi chiamava “Goppai diciosu”(”Compare felice“, “beato“, “fortunato“), e io gli rispondevo con “Goppai stimau“. E poi lui, con linguaggio di rango più alto, nel corso della conversazione, mi chiamava”Vissignoria“, io “Vosteti“.
Quante cose profonde ho appreso in quelle, apparentemente futili, chiacchierate!
Quando si doveva parlare con più profondità, Francesco ti diceva passa “a domu a pigai su cafei“. Nei giorni feriali, gli incontri avvenivano alla 7 del mattino! Io passavo da via S. Saturnino per recarmi in Facoltà per la lezione. Siccome ero mattiniero come lui, le 7 era un’ora “comoda” per vederci. Parlare di un convegno, di una iniziativa, di qualcosa da organizzare.  Se invece, dovevamo parlare più a lungo, allora la sera. D’estate, si parlava nel suo bel cortile sotto l’albero di ulivo. Lui era socratico. Non ha scritto libri, anche se ha scritto molti articoli, da fare più di un libro. Dava molto peso alla parola, al confronto. In quelle conversazioni si imparava, tornavi a casa con qualcosa in più. La conferma di un convincimento o con l’acquisizione di profili delle questioni trattate che non avevi considerato. E anche quando le sue opinioni ti sembravano bizzare, poi, riflettendoci, ti convincevi ch’erano profonde e difficilmente sfasate. Perché in lui era estranea l’idea della improvvisazione. Quando non aveva maturato un convincimento perchè stava ancora riflettendo stava zitto. I silenzi di Francesco anche su cose importanti, potevano spazientire chi non lo conosceva e, confesso, anch’io più d’una volta pretendevo da lui risposte immediate su fatti di attualità rilevanti, anche per il dovere di esprimere un orientamento sul blog o negli incontri pubblici o privati. Ma chi lo conosceva sapeva che la sua non era indifferenza e tanto meno opportunistica attesa, occorreva aspettare, stava studiando. In questo era gramsciano fino al midollo. La lezione dei vecchi comunisti che aveva frequentato fin da ragazzo (i Laconi, i Berlinguer, i Cardia) avevano lasciato il segno.
Ma, scusate, se ho scritto queste cose, un po’ personali, forse di scarso interesse generale, dovevo coprire il vuoto di una telefonata con Francesco. E siccome l’ho fatta lunga, vuol dire che lui non aveva impegni: “non deppiada puliri sa tuedda de s’affrabica” (”non doveva pulire la piazzuola del basilico”) né “pasci is crabas” (portare le capre al pascolo).

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