Il sen. Marilotti: la centralizzazione della sanità è necessaria per dare unitarietà alla tutela della salute. Tonino Dessì risponde

7 Aprile 2020
2 Commenti


Gianni Marilotti

Intervengo nel dibattito aperto da Andrea Pubusa sulla proposta di modifica dell’art. 117 della Costituzione, concernente l’attribuzione allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della salute, depositata in Senato il 1° aprile e non ancora assegnata.
Il DDL è stato presentato dai senatori del gruppo 5 Stelle, prima firmataria, Paola Taverna, accompagnato da un nutrito numero di sottoscrittori tra cui il sottoscritto.
Se le argomentazioni critiche di Pubusa sono pertinenti, e in molte parti convincenti, in particolare per quel che riguarda l’abuso di proposte di modifiche costituzionali operate nell’ultimo ventennio, speso superficiali e contraddittorie, che tendono a far perdere quel carattere di sacralità che la Carta fondamentale dovrebbe avere, o nel ribadire la centralità dell’aricolo 5 della Costituzione che disegna lo stato ordinamento, rimane tuttavia il diritto/dovere del Parlamento di intervenire laddove siano presenti evidenti criticità.
Il DDL in oggetto si propone di restituire centralità e unitarietà al Sistema sanitario nazionale al fine di recuperare una visione di insieme, superando così l’attuale frammentazione in cui versano i servizi sanitari regionali.
A ben vedere è un intervento che vuole porre un freno alla rincorsa all’”Autonomia differenziata” pretesa da alcune Regioni del nord est.
Non c’è nessuna pulsione accentratrice in questo provvedimento, bensì la determinazione di applicare in modo più rispondente alla sua ratio l’articolo 32 della Costituzione, che afferma che la tutela della salute rappresenta uno dei compiti fondamentali dello Stato.
Si tratta di valore primario dell’ordinamento costituzionale e diritto sociale fondamentale che impegna la Repubblica ad intervenire al fine di garantire la salute del singolo e della collettività.
Sappiamo bene che per i primi trent’anni della repubblica questo principio è rimasto inapplicato: Fino al 1980 nel nostro ordinamento la sanità si reggeva su un sistema mutualistico, in virtù del quale i lavoratori, per poter accedere alle cure mediche e ospedaliere, avevano l’obbligo di iscriversi presso uno dei diversi enti mutualistici esistenti, le c.d. “casse mutue”.
Una sanità disordinata che si dipanava tra una miriade di competenze ed enti diversi e che si finanziava attraverso i contributi versati dagli stessi lavoratori e dai loro datori di lavoro.
La salute era dunque correlata alla condizione lavorativa, per nulla assimilabile ad un diritto di cittadinanza.
La svolta è avvenuta nel 1978, con la Legge 23 dicembre 1978, n.833, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
Negli anni questo sistema è stato più volte modificato: in particolare, con il Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 con cui le Usl sono divengono Asl (“Aziende sanitarie locali”) e si è istituzionalizzato il sistema dell’ “accreditamento” delle strutture sanitarie private; e nel 1999 quando il Decreto Legislativo n. 229 ha completato il processo di aziendalizzazione, rafforzando il ruolo delle Regioni e compensativamente introducendo i “Livelli essenziali di assistenza”, i c.d. Lea.
Il processo di regionalizzazione del Sistema sanitario, com’è noto, è stato poi completato attraverso la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione, la quale, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, valorizza e amplia il ruolo e le competenze delle autonomie locali, delineando un sistema istituzionale caratterizzato da un pluralismo dei centri di potere.
In particolare, a norma dell’articolo 117 comma 2 della Costituzione, la tutela della salute diviene competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni.
Lo Stato mantiene la competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art.117, lett. m).
Così riformato, il sistema appariva più funzionale, oltre che rispondente all’altro principio costituzionale, ricordato da Pubusa, ovvero il ruolo delle autonomie territoriali.
Nella pratica però ha finito per sconfessare le intenzioni del legislatore in punto di uniformità ed equità nell’accesso e nella fruizione delle prestazioni sanitarie sull’intero territorio nazionale.
Si sono registrati profondi divari territoriali con inaccettabili dislivelli, sia in termini quantitativi che qualitativi, dei servizi erogati nelle varie regioni. Il taglio alla spesa sanitaria operato nell’ultimo decennio ha poi finito per accentuare questo divario.
In primo luogo si è fatto maggiormente ricorso alle prestazioni offerte in regime privatistico, le cui strutture peraltro – a fronte dei progressivi disinvestimenti nel settore pubblico – si sono giovate spesso di crescenti finanziamenti pubblici.
Un circuito vizioso dunque che ha visto il Servizio sanitario venire gradualmente e irrazionalmente depauperato delle sue risorse.
Non occorre tornare troppo indietro nel tempo per evidenziare la significativa riduzione che si è osservata nel rapporto che sussiste tra medici e personale sanitario rispetto alla popolazione, in relazione al quale si registrano pure significativi scostamenti da regione a regione.
Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, l’attuale assetto delle risorse umane del Servizio Sanitario Nazionale è in parte il risultato delle politiche attuate negli anni recenti, incentrate principalmente sul blocco del turn over nelle regioni sotto piano di rientro, cui si sono aggiunte politiche di contenimento delle assunzioni messe in atto autonomamente dalle regioni non sottoposte ai piani di rientro.
Secondo la Ragioneria di Stato tra il 2009 e il 2017 sono venute meno più di 46 mila unità di personale dipendente: oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri.
A fronte di questi tagli, l’accaparramento dei centri di potere nella sanità è andato avanti senza sosta da parte dei partiti, contribuendo a inefficienze e sperperi di danaro pubblico.
Tutto ciò è particolarmente evidente nella nostra Regione, dove la politica delle tre “M” l’ha sempre fatta da padrona.  Da noi i tagli sono stati lineari, nella sanità come nella scuola, rispondendo a numeri nazionali che non tengono in nessun conto del territorio, della demografia, delle caratteristiche antropiche. E questo è successo nonostante, come ci ricorda Tonino Dessì, l’igiene e sanità pubblica sono materia di legislazione concorrente ai sensi della lettera i) dell’articolo 4 dello Statuto speciale; e come tale non toccata, come le altre Regioni speciali, dal DDL.
Pubusa teme che con l’attribuzione di poteri esclusivi allo Stato in materia di sanità possano realizzarsi massicce privatizzazioni dall’alto. Ma a ben vedere è successo e sta succedendo proprio il contrario. Basti pensare alla recente Delibera approvata il 1 aprile dalla Giunta Solinas, con la quale si da il via libera a due progetti di cementificazione ad Arbus e Castiadas con un’interpretazione discutibile del PPR. Di fronte alla fragilità del nostro sistema sanitario, Solinas e la sua maggioranza pensano di utilizzare lo stato di emergenza per rafforzare la sanità privata e di approvare progetti di cementificazione.
Per concludere, io credo che il principio di sussidiarietà debba essere la bussola che deve guidarci soprattutto nei settori chiave della sanità, dell’istruzione pubblica e dell’ambiente.
Quanto al DDL in questione, si tratta di aprire un dibattito, particolarmente urgente dopo i recenti fatti nazionali. Di fronte ad una emergenza così grave, quale la pandemia da covid 19, non dovrà essere permesso a nessuno, governatore o sindaco, di giocare una squallida partita politica personale o di partito per marcare una differenza e minare la coesione nazionale. Perché di questo si è trattato, non certo di mancanza di autorevolezza da parte del governo che invece ha mostrato in questa triste vicenda determinazione, compostezza e serietà davvero encomiabili.
Naturalmente il rafforzamento dei poteri dello Stato in materia sanitaria dovrà essere accompagnato, temperato, controbilanciato dal ruolo delle Regioni e delle Autonomie locali che sono i primi avamposti per la tutela del benessere dei cittadini.

Tonino Dessì

 

Caro Gianni, il disegno di legge costituzionale della Senatrice Taverna si ispira, mi pare, o comunque è volto introdurre una formula analoga quella adottata dal legislatore costituzionale nella materia della tutela dell’ambiente, che attualmente è collocata al secondo comma dell’articolo 17 della Costituzione fra quelle di competenza legislativa esclusiva statale.
Quella materia, precedentemente alla riforma del Titolo V del 2001, non era menzionata nella Costituzione e la tutela dell’ambiente fece ingresso nella legislazione italiana preceduta da un’elaborazione giurisprudenziale che ne rinveniva i fondamenti negli articoli 9 e 32 della Costituzione, rispettivamente in materia di tutela del paesaggio e tutela della salute. Viceversa, in apparenza, spostare la materia della tutela della salute dal terzo comma al secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione, alla fin fine, se non avesse altre implicazioni sistemiche e se non comportasse tutte le obiezioni già svolte da Andrea Pubusa nel suo articolo, costituirebbe lo sbocco di un processo interpretativo che già la giurisprudenza costituzionale ha anticipato, nella sostanza affermando la preminenza statale su quella regionale e persino l’ammissibilità che questa competenza statale venga esercitata non solo con norme generali, ma con norme puntuali e di dettaglio, anche in materia di tutela della salute.
Ciò secondo la Corte, volta per volta, sia per la rilevanza della collocazione dell’articolo 32 nei principi fondamentali della Costituzione, sia per la previsione nell’articolo 117 della esclusiva competenza statale nella determinazione dei livelli essenziali di assistenza e di prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale, sia per il fatto che anche nelle materie concorrenti i principi generali sono di competenza del legislatore statale, sia infine per la non meno penetrante statuizione costituzionale della competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica.
Sennonché la simmetria funziona fino a un certo punto, poi si arresta.
Togliere sic et simpliciter ogni riferimento alla sanità dal terzo comma dell’articolo 117 porterebbe a una forma di “statalizzazione” gestionale e amministrativa che mio avviso sarebbe tutt’altro che auspicabile.
A ben vedere nemmeno in materia ambientale si è arrivati a tanto, se si tien conto che per quanto la “tutela dell’ambiente” sia materia di esclusiva competenza legislativa statale, ai sensi della lettera s) del comma 2 dell’art. 117, restano pur sempre alla competenza concorrente regionale il “governo del territorio” e la “valorizzazione dei beni ambientali e culturali”, ai sensi del comma 3.
Perciò la soluzione, proposta, per essere concettualmente ottimale, andrebbe quantomeno integrata prevedendo si, la “tutela della salute” come competenza legislativa generale dello Stato, ma attribuendo alla competenza concorrente regionale la materia della “programmazione, organizzazione e gestione dei servizi sanitari”.
Peraltro la modifica proposta (anche con l’integrazione che non potrebbe non essere apportata) non toccherebbe le competenze delle Regioni speciali: per noi “igiene e sanità pubblica” resterebbero materia di legislazione concorrente ai sensi della lettera i) dell’articolo 4 dello Statuto speciale per la Sardegna, salvo invece modificare con legge costituzionale ad hoc anche lo Statuto.
Ora, tuttavia, già queste riflessioni dovrebbero indurre a considerare gli obiettivi con maggiore avvedutezza.
Se è vero che la situazione attuale vede un sistema sanitario nazionale caratterizzato da modelli gestionali differenti fra Regione e Regione (in conseguenza delle note condizioni economiche e finanziarie diverse fra aree del Paese, di scelte fatte dai governanti locali nel privilegiare le grandi strutture ospedaliere oppure la sanità territoriale, ovvero ancora nella proporzione fra quota pubblica e quota privata nella gestione e nella erogazione dei servizi), è pur vero che in linea di massima un trattamento omogeneo è accessibile per tutti i cittadini italiani, i quali per le cure ospedaliere e specialistiche pubbliche possono recarsi in qualunque parte del territorio nazionale e utilizzare tanto strutture pubbliche quanto quelle private convenzionate col SSN.
Viceversa, la diversità dei modelli non è di per se un fatto negativo, consentendo la concorrenza anche di eccellenze derivanti da scelte e condizioni particolari di ciascuna regione.
Significativo per esempio il fatto che una Regione come la Lombardia, che aveva investito molto in un sistema basato su grandi strutture ospedaliere anche tecnologicamente avanzate, si sia trovata, nell’emergenza epidemica, in più gravi difficoltà rispetto a Regioni come il Veneto, che ha realizzato un sistema nel quale una strutturata medicina territoriale convive con alcune strutture ospedaliere di eccellenza e come l’Emilia Romagna con la sua sanità marcatamente orientata verso la prevenzione.
D’altra parte il sistema italiano complessivo, se per un verso fa si che ogni regione garantisca autonomamente l’assistenza sanitaria alla rispettiva popolazione residente, per altro verso rende disponibili sia nell’ordinarietà sia nelle emergenze anche i servizi e le strutture delle altre Regioni.
In conclusione, posto che già oggi a Costituzione vigente molto anche mediante la legislazione statale ordinaria si può fare per migliorare il sistema, vale la pena di sprecare energie in una rischiosa modifica della Costituzione, o non sarebbe preferibile far tesoro dell’inedito e stressante rodaggio del funzionamento del sistema in una situazione pandemica per apportare i miglioramenti auspicabili e auspicati.

2 commenti

  • 1 Aladinpensiero
    7 Aprile 2020 - 08:55

    Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=106382

  • 2 Gianni Marilotti
    7 Aprile 2020 - 13:25

    Che dire Tonino, prendo atto della tua lucida analisi, così come di quella di Andrea che ha aperto questo dibattito. Cercherò di fare tesoro delle vostre argomentazioni nell’iter parlamentare che accompagnerà il DDL. Di una cosa sono oggi ancora più convinto: che per legiferare bene occorre il più ampio confronto sociale e culturale.

Lascia un commento