Gianfranco Sabattini

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1. Premessa.

Tradizionalmente, l’economia della partecipazione, dopo il tramonto dell’organizzazione della produzione secondo il “modello fordista” e secondo il “modello del socialismo burocratico-accentratore”, rappresenta il tentativo di dare un fondamento teorico all’idea della cooperazione nel mondo della produzione tra il capitale e la forza lavoro, attraverso il loro coinvolgimento nella gestione delle attività produttive. Il punto di arrivo di questa corrente di analisi teorica (iniziata nel XIX secolo parallelamente al rilancio del movimento cooperativo) è il contributo di M.L.Weitzman (L’economia della partecipazione, 1985 [1984 edizione originale]) e di J.E.Meade (Agathotopia: l’economia di compartecipazione, 1995 [1989 edizione originale). J.E.Meade, a differenza degli utopisti (tra i quali M.L.Weitzman), che propongono istituzioni perfette per cittadini perfetti, propone, un “buon posto in cui è conveniente vivere” (traduzione etimologica di Agathotopia) all’interno del quale risolvere “al meglio” il problema distributivo che il socialismo burocratico ed accentratore ha posto senza riuscire a risolverlo. Rendersi conto della critica meadiana è importante, perché così diviene possibile capire le ragioni che stanno alla base della necessità di sostituire, nella teoria della partecipazione, la “società perfetta” degli utopisti con la “società migliore” degli agathotopisti.

2. L’estensione della regola democratica dall’ordinamento politico all’ordinamento economico.

2.1. La dimensione dell’uguaglianza politica costituisce un elemento portante della natura democratica di un ordinamento politico orientato a risolvere in termini “più convenienti” il problema del prodotto sociale e quello della sua distribuzione. Sennonché, la proprietà ed il controllo privati delle risorse economiche influenzano negativamente l’uguaglianza politica in due modi distinti, ma correlati. Da un lato, la proprietà ed il controllo privati delle risorse economiche contribuiscono alla creazione di differenze tra i singoli soggetti, riguardo a patrimonio, reddito, posizione sociale ed accesso all’informazione; questi elementi di differenziazione, a loro volta, originano l’approfondimento delle differenze tra gli stessi soggetti nella possibilità di una loro partecipazione, come attori politicamente uguali, al funzionamento dell’ordinamento politico. Dall’altro lato, la gestione delle risorse, opportunamente organizzate in specifiche combinazioni produttive all’interno delle attività di produzione (imprese), avviene sulla base di rapporti intersoggettivi assai lontani dall’uguaglianza politica. Tutto ciò significa che quando la proprietà ed il controllo delle risorse economiche determinano all’interno delle attività produttive sostanziali differenze tra i soggetti che in esse operano, la partecipazione di questi al loro governo è assai disuguale.

2.2. Si ha così l’esistenza di una palese contraddizione tra le regole che disciplinano l’interazione sociale all’interno dell’ordinamento politico e le regole che disciplinano l’interazione tra gli attori economici all’interno di specifici segmenti organizzativi (le imprese) dell’intero ordinamento economico; in tali segmenti, in quanto inquadrati all’interno di un ordinamento politico che assume la democrazia come suo valore fondativo, le relazioni tra gli attori che in essi operano dovrebbero risultare sostanzialmente omogenee a quelle che si svolgono tra gli attori politici all’interno dell’ordinamento politico.
Dal momento che è nelle aspirazioni di tutti gli attori politici che operano all’interno di ordinamenti politici democratici non vedere compromesse le regole democratiche dal funzionamento delle attività produttive dell’ordinamento economico, è d’obbligo, per tutti gli attori economici che operano in esse, per raggiungere migliori risultati sul piano produttivo e su quello distributivo, assumere che la distribuzione intersoggettiva della proprietà e del controllo delle risorse economiche compatibile con il rispetto della regola democratica sia equipollente a quella distribuzione che è necessaria per raggiungere uno standard di produzione e di equità distributiva giudicato più conveniente (R.A.Dahal, La democrazia economica, 1989). Se si accetta la regole democratica come condizione necessaria al funzionamento dell’ordinamento politico in senso democratico e al funzionamento dell’ordinamento economico secondo uno standard produttivo e distributivo giudicato più conveniente, sarebbe contraddittorio che si considerasse l’ordinamento economico non-democratico e democratico quello politico. Si dovrà quindi operare perché il rispetto della regola democratica sia generalizzato, perché, se ciò non dovesse avvenire, si creerebbero condizioni di operatività non-democratica oltre che dell’ordinamento economico, anche di quello politico; condizioni queste che non sono nelle aspirazioni degli attori politici (o cittadini).

3. La cogestione.

3.1. Il funzionamento dell’ordinamento economico in modo omogeneo, sul piano delle regole, al funzionamento democratico dell’ordinamento politico, presuppone una particolare organizzazione delle attività produttive in cui siano stabilite le condizioni in presenza delle quali possa prendere corpo un comportamento di scelta degli attori strettamente connesso con una tendenziale omogenea distribuzione della proprietà e del controllo delle risorse economiche.
In simili condizioni, la mancata partecipazione democratica alla gestione ed al controllo delle risorse economiche può implicare per gli attori subalterni (forza lavoro) livelli di disaffezione al corretto funzionamento dell’ordinamento economico, sino ad ostacolare, sia la dinamica dell’ordinamento economico, che quella dell’intero sistema sociale. Per contro, il coinvolgimento nel processo decisionale concernente la gestione della proprietà e del controllo delle risorse economiche della forza lavoro comporta che l’adesione al corretto funzionamento dell’ordinamento economico diventi una fonte di quotidiana gratificazione, traducendosi questa in una diminuita conflittualità tra proprietari e controllori dei mezzi di produzione e forza lavoro e, perciò, in un incremento del valore complessivo della produzione che renderebbe l’ordinamento economico partecipato e democratico più produttivo di un ordinamento economico non democratico.

3.2. La regola democratica, dunque, possiede intrinsecamente un valore, per cui, dal punto di vista dell’ordinamento economico, essa si trasforma in risorsa; in conseguenza di ciò, l’estensione della regola della democrazia dall’ordinamento politico all’ordinamento economico comporta anche che, all’interno di quest’ultimo, le relazioni tra proprietari e controllori della gestione delle risorse economiche diverse dai servizi della forza lavoro e proprietari e controllori della gestione dei servizi della sola forza lavoro, si pongano su un piano di mera parità e non di potere condizionante e gerarchico.
Sinora, l’estensione della regola democratica dall’ordinamento politico a quello economico è stata sperimentata su scala ridotta, attraverso forme di compartecipazione del capitale e del lavoro alla proprietà ed al controllo delle risorse economiche organizzate all’interno di specifici processi produttivi. La sperimentazione, tuttavia, ha sempre sollevato e continua a sollevare molte obiezioni, le principali delle quali sono le seguenti: 1. la realizzazione di forme compartecipative all’interno dell’ordinamento economico viola i diritti di proprietà che costituiscono uno dei pilastri fondativi del mercato di concorrenza; 2. la tendenza alla gerarchizzazione dei rapporti tra proprietari e controllori della gestione delle risorse economiche diverse dai servizi della forza lavoro ed i proprietari e controllori della gestione dei servizi della forza lavoro dipendente opera così fortemente, a causa della natura vincolante delle decisioni prese all’interno delle attività produttive, che l’estensione della regola democratica dall’ordinamento politico all’ordinamento economico potrebbe assumere solo caratteri artificiosi; ciò, in quanto la forza lavoro dipendente, non avendo la conoscenza tecnica necessaria per la gestione delle attività produttive, non può avere la motivazione a favore della democratizzazione dell’ordinamento economico.

3.3. Le obiezioni sono state tutte ampiamente confutate dalla critica degli economisti istituzionalisti, ma anche da quella dei giuristi costituzionalisti. In linea di principio, sia gli uni che gli altri evidenziano che se è vero che si deve escludere che l’introduzione della regola democratica nel funzionamento dell’ordinamento economico possa rendere le attività produttive perfettamente democratiche o che possa rendere possibile il superamento degli esiti della gerarchizzazione che appare essere intrinseca a tutte le organizzazioni umane; tuttavia, è altrettanto vero che, proprio come si persegue la salvaguardia della regole democratica nel funzionamento dell’ordinamento politico, nonostante le sostanziali imperfezioni esistenti nell’organizzazione dell’intera struttura istituzionale, è anche plausibile perseguire un analogo impegno nei confronti dell’organizzazione del funzionamento delle attività produttive, a dispetto dei difetti che la loro operatività può evidenziare. Non esiste, perciò, alcuna ragione per cui non si debba perseguire l’introduzione della regola democratica nella gestione delle attività produttive, così come, peraltro, si è fatto nei riguardi dell’ordinamento politico.
Affermata la possibilità che la regola democratica possa essere effettivamente e convenientemente estesa dall’ordinamento politico a quello economico, occorre ora considerare le implicazioni economiche della cogestione, non solo con riferimento agli incentivi che da essa possono derivare, ma anche ai problemi connessi alle modalità con cui il prodotto dei soci delle attività cogestite risente delle “fortune” o delle “sfortune” delle attività produttive, senza per questo che il carattere della cogestione possa essere in qualche modo snaturato. Degli incentivi si è già detto; la cogestione ha l’effetto di migliorare il valore complessivo della produzione attraverso il maggior livello di affezione alle attività produttive della forza lavoro in esse occupata. Esistono, però, considerazioni più preganti dal punto di vista economico, connesse alla necessità di ridurre il senso di estraneità tra capitale e lavoro all’interno delle attività produttive per il miglioramento delle remunerazioni dei fattori produttivi ed in particolare della rimunerazione dei servizi della forza lavoro.
Sinora, nella risoluzione di questo problema si è sempre navigato, come dice J.E.Meade (Politica economica e mercato, 1993) tra Scilla e Cariddi; da un lato è stato sperimentato il “gorgo” del laissez-faire, il conflitto tra capitale e lavoro e, dall’altro, è stata sperimentata la pianificazione socialista burocratica e centralizzata; tenuto conto dell’esperienza vissuta, perciò, devono essere cercate modalità alternative di organizzazione delle attività produttive, con cui conservare i vantaggi della concorrenza di mercato e al tempo stesso rafforzare gli interessi comuni al lavoro ed al capitale esistenti all’interno di ciascuna attività produttive, per migliorare i rapporti di produzione ed accrescere il risultato delle attività produttive.

3.4. In altri termini, l’obiettivo da perseguire con la cogestione è il superamento del conflitto tra capitale e lavoro, sino a sostituirlo con rapporti collaborativi. Quando il capitale ed il lavoro si combinano per la produzione e la distribuzione di un dato prodotto, la loro relazione può essere considerata in una prospettiva conflittuale, oppure in una prospettiva cooperativa. Quanto maggiore sarà la produzione, tanto maggiore sarà il valore del prodotto che il capitale ed il lavoro potranno ripartirsi; la quota imputabile al lavoro, però, è in “conflitto” con quella imputabile al capitale, per cui se la prima è fissa, il lavoro non ha alcun incentivo a sviluppare rapporti collaborativi con il capitale, dato che la sua rimunerazione sarà sempre una parte prestabilita del valore complessivo del prodotto conseguito, indipendentemente dalla grandezza di quest’ultimo. Se, per contro, il valore della produzione è distribuito tra capitale e lavoro in modo tale per cui la parte imputata al lavoro stesso risulti essere proporzionale al valore della prodotto realizzato cooperativamente tra capitale e lavoro, questo è maggiormente incentivato ad approfondire i rapporti collaborativi con il capitale, al fine di aumentare il livello complessivo della produzione.
L’effetto cooperativo all’interno delle attività produttive cogestite è, dunque, duplice; da un lato si ha la conseguenza del fatto che il comportamento di tutti gli attori è condizionato ed influenzato dall’intensità della lealtà sociale e, dall’altro, si ha la conseguenza del fatto che la cogestione consente di introdurre all’interno delle attività produttive, attraverso l’”aggancio” della retribuzione della forza lavoro al suo “impegno”, forti incentivi collaborativi all’espansione della prodotto.

4. Il problema della forma più conveniente di proprietà.

4.1. Le modalità secondo cui la rimunerazione dei servizi resi dai soci delle attività produttive cogestite può risentire delle “fortune” o delle “sfortune” delle stesse attività produttive senza compromettere il carattere della cogestione comportano la necessita che sia risolto il problema della forma più conveniente di proprietà delle attività produttive cogestite. Quattro sono le soluzioni disponibili: 1. proprietà individuale di tutti i soci; 2. proprietà cooperativa di tutti i soci; 3. proprietà statale; 4. proprietà sociale. Può essere utile analizzare quale delle quattro alternative proprietarie risponde meglio al vincolo della “non-compromissione” del carattere della cogestione.

I. Proprietà individuale. Con la proprietà individuale, i soci di un’attività produttiva cogestita possiedono individualmente la loro quota azionaria dell’attività produttiva complessivamente considerata; questa regola proprietaria, combinata con la regola elettorale “una testa un voto”, concorre a costituire all’interno dell’attività produttiva il quadro istituzionale per l’esercizio del controllo democratico delle decisioni. Al contrario delle attività produttive nelle quali i lavoratori sono proprietarie di quote azionarie e dispongono di voti in proporzione alla consistenza di tali quote, la proprietà di una singola azione all’interno di un’attività produttiva cogestita e, quindi, la disponibilità di un solo voto, è di per sé sufficiente a garantire l’adozione della regole democratica nell’assunzione delle decisioni. Tale forma di proprietà, tuttavia, ha due limiti intrinseci che rendono impossibile la conservazione della cogestione di una data attività produttiva. Se questa si espande e si potenzia (non si considera il caso opposto dell’attività produttiva che, messa fuori mercato, cessa di costituire un “centro” di relazioni cooperative), le sue azioni assumono un tale valore che finirebbe col tradursi in uno “sbarramento” all’ingresso di nuovo soci, in quanto questi ultimi potrebbero non avere le risorse necessarie per acquisire il diritto di entrata; d’altra parte, i soci dell’attività produttiva che intendessero recedere potrebbero preferire vendere le loro azioni al più alto offerente, con la conseguenza che l’eventuale controllo dell’attività produttiva, acquisito da soggetti estranei alla cooperativa, non sarebbe più compatibile con la sua sopravvivenza.

II. Proprietà cooperativa. Con la proprietà cooperativa posseduta dai soci come gruppo i diritti dei soci verso l’attività produttiva cogestita non sono determinati dal fatto di esserne proprietari, ma dal fatto di esserne soci. Così, come all’interno di un ordinamento politico, il rapporto di cittadinanza prefigura per i cittadini diritti uguali, in quanto membri (soci) dell’ordinamento, senza, però, comportare nel contempo il diritto di poter reclamare la proprietà di una quota individuale del “capitale sociale” esprimente il valore economico di tutti i beni che fanno capo all’intero sistema sociale, nello stesso modo, all’interno di un’attività produttiva posseduta dai soci come gruppo, i singoli hanno pari diritti l’uno verso l’altro, ma non possono pretendere una quota del capitale per disporne a loro discrezione.
L’indisponibilità di tale quota porta, però, l’attività produttiva a confrontarsi con un fatale problema: se la proprietà cooperativa “a titolo di gruppo” esclude che un socio uscendo dall’attività produttiva, per una qualsiasi ragione (perché giunto all’età pensionabile, o perché vuole uscire volontariamente, o perché è espulso), possa disporre liberamente del “frutto” del tempo di lavoro trascorso all’interno dell’attività produttiva della quale è socio, gli incentivi alla cogestione si affievoliscono, per cui sarebbe inevitabile la sopravvenienza dell’originario conflitto tra capitale e lavoro in luogo della loro cooperazione.

III. Proprietà statale. La reputazione di questa forma di proprietà è, in linea di principio ed in linea pratica, fortemente “screditata” dalle argomentazioni in suo favore avanzate dai suoi sostenitori, normalmente fondate sulla negazione dell’autonomia della quale le attività produttive autogestite necessitano. Tra le argomentazioni “forti” a sostegno della proprietà statale vi è quella fondata sull’affermazione secondo cui tale forma di proprietà simboleggerebbe la natura pubblica delle attività produttive, del tutto differente dalla natura dei diritti di proprietà di tutti coloro che vi lavorano, sia a titolo individuale, che a titolo di gruppo; si sostiene anche l’argomentazione secondo cui l’autogestione, anche in presenza della proprietà statale, potrebbe essere garantita con il vincolo per lo stato, dopo aver acquisito la proprietà dell’attività produttiva, della concessione della stessa attività ai lavoratori, con la possibilità di riscatto; in questo caso, la natura pubblica della proprietà statale avrebbe un significato puramente simbolico, non privo di controindicazioni esiziali per la cogestione. Infatti, se la proprietà statale fosse solo simbolica, allora lo stato non avrebbe alcuna autorità per intervenire nella gestione delle attività produttive per la tutela dell’interesse sociale, se non attraverso la legislazione, per il cui esercizio non è necessaria alcuna proprietà simbolica; d’altra parte, se la proprietà dello stato non fosse simbolica e potesse effettivamente intervenire nella gestione delle attività produttive, l’autonomia dell’attività sarebbe irreparabilmente negata. Inoltre, anche supponendo che lo stato assuma l’impegno di rispettare il vincolo della concessione della gestione delle attività produttive ai lavoratori, l’esperienza sinora vissuta evidenzia l’impossibilità che tale vincolo sia sempre “onorato”, in quanto le pressioni burocratiche per la protezione dell’interesse sociale avrebbero l’effetto di trasformare le attività produttive in “agenzie governative”, per cui la proprietà statale, lungi dal conservarsi simbolica, trasformerebbe in simbolica soltanto l’autogestione.

IV. Proprietà sociale. Con la proprietà sociale o collettiva (che sarebbe, nell’ambito della sfera pubblica dell’intero ordinamento politico, l’esatta corrispondente, nell’ambito della sfera privata dell’ordinamento economico, della proprietà cooperativa rispetto alla proprietà individuale), non è lo stato il proprietario delle attività produttive, in quanto queste ultime sono di proprietà collettiva, per cui la forza lavoro è il gestore fiduciario per conto della collettività delle singole attività produttive, ma non il loro proprietario, per cui non può disporre del valore capitale che viene messo a sua disposizione. Tuttavia, poiché la “comunità” o il “collettivo” di un dato ordinamento politico sono soggetti che non dispongono di una loro “capacità di agire”, fatta eccezione per le sole istituzioni dell’ordinamento politico stesso, tutti i diritti e tutti i poteri che fanno capo alla “collettività” o al “collettivo” sono esercitati inevitabilmente da tali istituzioni, per cui l’autorità sovrana sulle attività produttive fiduciariamente concesse in gestione ai lavoratori è esercitata de jure e de facto solo dallo stato; il risultato, pertanto, è solo quello di una forma di proprietà delle attività produttive autogestite che, di fatto, è solo di natura simbolica, con i limiti propri della forma di proprietà precedentemente esaminata. D’altra parte, se l’ingegneria istituzionale consentisse la possibilità di dotare la “comunità” o il “collettivo” di una “capacità di agire”, i limiti di questa forma di proprietà (ma anche i vantaggi) sarebbero quelli propri della proprietà cooperativa.

4.2. Delle quattro forme di proprietà esaminate, risulta evidente come la proprietà cooperativa, di fatto, sia quella che meglio delle altre risulta essere compatibile con la prospettiva della estensione della regole democratica dall’ordinamento politico all’ordinamento economico, al fine di assicurare alle attività produttive di una dato sistema sociale l’acquisizione dei maggiori incentivi che possono aversi con la cogestione delle attività produttive da parte del capitale e della forza lavoro.
L’istituzionalizzazione della proprietà cooperativa non qualifica l’intero ordinamento economico, né in termini capitalisti né in termini socialisti; tutt’al più si può dire che elementi congiunti del capitalismo e del socialismo permangono a connotare l’ordinamento economico che adotti, come forma più conveniente di proprietà delle attività produttive cogestite, la proprietà cooperativa; in tal modo, le attività cogestite, la cui proprietà sia di natura cooperativa, presenterebbero caratteri pubblicistici rispetto a tutti i soci e privatistici rispetto a tutti i soggetti ad esse esterni.

5. I problemi irrisolti.

All’interno di un ordinamento economico fondato sulla proprietà cooperativa delle attività produttive permangono, tuttavia, aperti e irrisolti, secondo J.E.Meade, tre ordini di problemi che l’esperienza dell’autogestione non ha sinora consentito di risolvere in modo univoco.
I. Il primo riguarda l’assunzione del rischio, in quanto anche la forza lavoro, al pari del capitale, deve assumere una parte del rischio d’impresa. Al riguardo, però, non esiste la certezza che la maggioranza dei lavoratori sia disposta a preferire l’autogestione in luogo della sicurezza del salario fisso. Si potrebbe pensare di garantire, a livello di intero ordinamento economico, una diminuzione del rischio di disoccupazione in cambio della disponibilità da parte dei lavoratori ad accettare un più elevato livello del rischio di instabilità del salario; non è detto però che un trade-off di questa natura sia condiviso necessariamente dalla maggioranza dei lavoratori, soprattutto se, all’interno delle attività produttive, esiste una minoranza della forza lavoro, più esposta al licenziamento in caso di crisi, che non sia disposta ad accollarsi l’onere delle diminuzione del rischio di disoccupazione a favore della maggioranza.
II. Il secondo riguarda le possibili implicazioni negative della compartecipazione, quando di devono assumere delle decisioni il cui successo dipenda dalla possibilità di sperimentare forme di innovazione ad alto rischio.
III. Il terzo, infine, riguarda la possibilità che la forza lavoro che partecipa all’assunzione delle decisioni gestionali tenda a tutelare solo la massimizzazione del suo salario e, dunque, a frenare la crescita delle attività produttive, nonostante siano proprio le attività produttive che hanno successo a doversi espandere per contribuire ad elevare l’occupazione. Anche in questo caso, tuttavia, la cogestione può essere caratterizzata dal permanere di conflitti latenti e interni alle attività produttive tra i lavoratori che ritengono di dovere utilizzare i risultati positivi per migliorare la rimunerazione dei servizi degli insider ed i lavoratori che, invece, ritengono che i risultati positivi debbano essere utilizzati per promuovere, a parità delle altre variabili economiche (prezzi, profitti e salari), l’espansione della produzione e con essa l’espansione dell’occupazione degli outsider.

6. Conclusione.

La permanenza dei problemi residui esaminati, tuttavia, se vale a dimostrare che anche con la cogestione delle attività produttive non possono essere risolti in termini ottimali (cioè “perfetti”), pur in presenza di una generalizzata adozione della regola democratica, i problemi della produzione e della distribuzione, essa non è però sufficiente a dimostrare l’improponibilità della cogestione e dell’estensione della regola democratica dall’ordinamento politico a quello economico, in quanto i problemi irrisolti servono solo a dimostrare che, a livello microeconomico (a livello cioè delle singole attività produttive), la cogestione implica, come J.E.Meade ha assunto in Agathotopia, l’istituzionalizzazione di un ordinamento economico complessivo “migliore” di quello che si avrebbe in assenza della stessa cogestione, per attori sicuramente imperfetti (“legni storti” secondo la felice intuizione di I.Kant).
L’approccio microeconomico, inoltre, fa velo su un altro aspetto della cogestione che a J.E.Meade non è certamente sfuggito. Oltre ai problemi che rimangono irrisolti, pur in presenza di una cogestione estesa a tutte le attività produttive dell’intero ordinamento economico, esistono anche problemi che possono essere risolti solo dall’ordinamento politico a livello macroeconomico. L’ordinamento politico costituisce, infatti, un contesto alternativo all’ordinamento economico per la soluzione di tutti i problemi che quest’ultimo non può risolvere a causa dei cosiddetti fallimenti del mercato, quali la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi pubblici, la ridistribuzione del prodotto sociale complessivo e la stabilizzazione dell’attività produttiva. Queste tre grandi classi di problemi richiedono infatti, pur in presenza della cogestione, un ruolo attivo ed insostituibile dell’organizzazione complessiva dell’ordinamento politico; richiedono cioè un ruolo attivo e complementare dello stato.
La cogestione, così come è stata studiata a livello microeconomico presenta anche un limite restrittivo riconducibile all’assunzione dell’ipotesi del pieno impiego della forza lavoro, o quanto meno che il fenomeno della disoccupazione, quando insorge, sia sempre temporaneo e congiunturale. La realtà attuale concernente il funzionamento dell’ordinamento economico complessivo è ben diversa, nel senso che il fenomeno della disoccupazione ricorre non più in termini congiunturali, ma in termini strutturali e permanenti. Ciò comporta che, a livello dell’ordinamento politico, il problema distributivo debba essere risolto in modo da tener cono anche del fenomeno della disoccupazione strutturale e della necessità di garantire all’ordinamento economico un sistema di sicurezza sociale (welfare state) che assicuri un reddito anche a chi non riesce ad entrare in qualità di socio a fare parte di un’attività produttiva cogestita.
Anche riguardo a questo problema il contributo di J.E.Meade è risultato sinora il più avanzato (J.E.Meade, Poverty in the welfare state, 1972; Libertà, uguaglianza ed efficienza, 1995; W.Van Trier, Who framed “social dividend”?, 1989; Social dividend e Keynes-connection, 1990); ciò perché descrive e spiega le modalità organizzative dell’ordinamento politico e dell’ordinamento economico fondate sull’estensione a tutti i cittadini-lavoratori, indipendentemente dalla stabilità o meno del rapporto di lavoro, un “reddito di cittadinanza” (che J.E.Meade chiama social dividend) o un “fondo sociale di cittadinanza” (R.M.Unger, Democrazia ad alta energia. Un mainfesto per la sinistra del XXI secolo, 2008), sufficienti a garantire a tutti indistintamente i disoccupati permanenti ed a coloro che sono dotati di un basso reddito la possibilità di realizzare il proprio progetto di vita attraverso la fruizione di un reddito (o di una sua integrazione) dissociato dal rapporto di lavoro. Che altro è questa garanzia di un reddito per tutti se non la realizzazione di un ordinamento politico migliore, rispetto a quelli sinora sperimentati, realizzato attraverso la sua cogestione da parte di tutti i cittadini che, sulla base della regola democratica, concorrono a risolvere a livello macroeconomico il problema distributivo del prodotto sociale nell’interesse di tutti?

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