Risorgimento: interpretazione gramsciana e liberale a confronto

12 Giugno 2010
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Gianfranco Sabatini - Univ. Cagliari

Per Antonio Gramsci, il raggiungimento dell’unità dell’Italia è stato l’esito di una “rivoluzione passiva” perché la maggioranza dei componenti le società civili degli Stati pre-unitari non ha avuto in esso parte attiva, come invece l’ha avuta l’élite liberale che ha realizzato l’unificazione e che però non ha svolto alcuna funzione di guida e di direzione del processo unitario sul piano dell’integrazione sociale.
Si tratta di un’interpretazione idealistica che non riesce a spiegare esaustivamente i processi politici, sociali ed economici occorsi all’interno dei singoli Stati pre-unitari. Perché l’interpretazione gramsciana potesse fornire una spiegazione esaustiva di tali processi sarebbe stato necessario ipotizzare il superamento della molteplicità delle organizzazioni statuali. La permanenza di tale molteplicità ha impedito la formazione di quei “rapporti egemonici” tra i nuclei sociali del Nord nei confronti di quelli del Sud che Gramsci riteneva necessari perché il Risorgimento non si concretizzasse in una “rivoluzione passiva”. Al riguardo, va notato che lo stesso Gramsci ipotizzava la necessità di una preventiva organizzazione unitaria della società italiana, considerando che la disparità delle situazioni istituzionali, politiche, sociali ed economiche tra i diversi Stati pre-unitari non avrebbe potuto essere superata attraverso una soluzione federalista dell’unità nazionale. Tuttavia, è degno di approfondimento il fatto che l’interpretazione gramsciana sia stata disattesa anche quando all’interno del sistema sociale italiano si sono create le condizioni per una sua ricezione.
Non meno idealistica dell’interpretazione gramsciana è, tuttavia, quella degli storici liberali; per l’interpretazione liberale l’unità dell’Italia sarebbe stata il prodotto dell’azione libertaria di una minoranza di “gloriosi patrioti”. Se a questa minoranza va riconosciuto d’aver contribuito a favorire ed a sorreggere il compimento del Risorgimento inteso come unità territoriale-istituzionale, non è possibile, però, attribuirgli di aver anche contribuito alla realizzazione dell’unità della nazione. L’esaltazione fideista della libertà e la sua assunzione acritica come valore fondativo del processo risorgimentale ha favorito la connotazione del Risorgimento in termini di “conquista regia”, il cui significato non sta solo nell’annessione interessata da parte del Piemonte dei territori degli Stati preesistenti, ma anche nel fatto che, dopo la realizzazione dell’unità sul piano territoriale-istituzionale, il rapporto che si è costituito tra contesti sociali diversi, dotati di diversa potenzialità economica, ha implicato un rapporto diretto di sfruttamento delle regioni “deboli” da parte delle regioni “forti”. Uno sfruttamento, che, nell’ambito delle relazioni di mercato sopravvenute a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, ha attivato e consolidato degli automatismi premiali che si sono allargati a vantaggio delle regioni “forti” dopo l’aumentata integrazione economica dei diversi contesti regionali.
Tutto ciò è stato favorito dall’adozione, alla fine degli anni Sessanta del XIX secolo, sotto la pressione dell’emergenza del fenomeno del “brigantaggio meridionale” e delle diffuse Jacquerie da parte di nuclei sociali avversi a qualsiasi cambiamento, di un’organizzazione istituzionale centralistica; sia il brigantaggio che le Jacquerie sono stati considerati dal governo italiano dell’epoca il prezzo che il nuovo Stato ha dovuto pagare per sopravvivere. I nuclei borghesi delle regioni del Centro-Nord (in prevalenza di estrazione piemontese, emiliana e toscana) ed i latifondisti meridionali (in prevalenza di estrazione siciliana) hanno potuto così esprimere le famose “consorterie” che hanno acquisto il controllo pieno del funzionamento dell’intero sistema statuale; il controllo, dissimulato dagli automatismi di mercato, è stato potenziato e conservato nel tempo attraverso atti governativi falsamente generali. Il prevalere delle “consorterie” ha determinato così che il potere centrale perdesse ogni capacità di assumere delle iniziative che risultassero compatibili con la cura degli interessi collettivi.

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