L’Italia svenduta all’euro?

3 Settembre 2013
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Gianfranco Sabattini

In questi giorni è in distribuzione nelle edicole un volume dal titolo che non ammette alternative, “Europa kaputt. (S)venduti all’euro”, di Antonio Maria Rinaldi, docente, tra i molti incarichi, di Finanza aziendale presso l’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara. Il volume è presentato da Paolo Savona e porta una postfazione di Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso la stessa Facoltà dell’autore: tutti, autore, “prefattore” e “postfattore”, accomunati dalla determinazione di non essere disponibili a “morire per Maastricht”. Ciò perché, come moli altri, hanno perso la fiducia, anzi hanno maturato la certezza, che l’aver creduto che l’unica possibilità di generare progresso e stabilità al vecchio continente europeo fosse resa concreta coll’”affidarsi al modello economico proposto dalla Germania”, è stato il più grave errore compiuto dopo il secondo conflitto mondiale. Da questo fermo convincimento discende il loro impegno ad “individuare precise alternative condivise e migliori per il bene comune, prima che sia troppo tardi”.
Per Rinaldi è arrivato il momento di dire le cose come realmente stanno, e cioè che l’Unione Europea e l’adozione della moneta unica sono la conseguenza di una progetto realizzato troppo in fretta e in modo poco avvertito; la sua realizzazione ha fatto emergere che gli obiettivi originariamente assunti hanno subito profonde modificazioni, per cui tutto ciò che si sta perseguendo è solo volto a rendere accettabili i cambiamenti intervenuti. Solo pochi oggi hanno il coraggio di sostenere pubblicamente che l’Europa attuale non è in grado di perseguire gli obiettivi prefissati, pur nella “consapevolezza che se prima il nostro Paese era certamente colpevole di gravi inadempienze nella gestione domestica, ora inseguendo vincoli esterni secondo modelli economici errati, la situazione è notevolmente peggiorata”. Prima, afferma Rinaldi, almeno eravamo “arbitri del nostro destino”, mentre ora subiamo regole che non corrispondono alle nostre caratteristiche nazionali.
La procedura adottata nella realizzazione del progetto europeo non ha permesso all’Italia di valutare la parte migliore della sua reale forza e delle sue ulteriori potenzialità: è stato “come stimare il valore di una persona esclusivamente dalle sue capacità atletiche e non per quello che può esprimere il suo sapere”. Tutto il meccanismo sul quale è stato fondato il sistema della moneta unica è, secondo Rinaldi, sbagliato e la pervicacia con cui ci si ostina a non volerlo correggere concorre sempre più a peggiorare la situazione. Il caso italiano sarebbe poi, secondo Rinaldi, del tutto particolare, in quanto l’Italia, perseguendo modelli organizzativi del quadro istituzionale e dell’economia nazionale a lei non propri, non sarebbe mai riuscita ad acquisire il grado di efficienza dei Paesi europei “più virtuosi”. Gli obblighi originati dall’accettazione dei vincoli esterni connessi all’attuazione dell’Unione Europea, che si sarebbero dovuti tradurre in un “sistema coercitivo” in grado di indurre la nostra società politica a compiere quello che autonomamente non è “mai riuscita a fare”, hanno determinato il declino politico, sociale ed economico del Paese. Se l’Europa sinora realizzata è stata voluta per unire, si deve prendere atto che ha fatto nascere nella maggior parte della società civile di tutti i Paesi europei un forte dissenso nei confronti di scelte politiche, istituzionali ed economiche ritagliate solo in funzione delle convenienze tedesche.
Sono queste le ragioni per cui tutti, autore, “prefattore” e “postfattore”, non sono disponibili, come si è già ricordato, a “morire per Maastricht”, ma solo a progettare un “Piano A”, per valutare responsabilmente la possibilità di continuare ad adottare la moneta unica, e un “Piano B”, contenente le modalità d’uscita ordinata dell’Italia (e degli altri Paesi) dalla moneta unica, ma anche i suggerimenti rivolti alla Germania sul come rendere esecutivo il “Piano D” (cioè il piano tedesco, indicato con la prima lettera del termine Deutschland) per il ritorno alla sua vecchia valuta nazionale.
Il “Piano A” ed il “Piano B” sono stati originariamente suggeriti da Paolo Savona allorché ha proposto una strategia complessiva da utilizzare nei confronti del Paese forte (la Germania), al fine di modificare la struttura portante dell’Unione Europea, utilizzando il “Piano B, senza l’appendice del “Piano D”, come “ricatto” per la piena attuazione del “Piano A”. Ora, secondo Rinaldi, poiché la situazione è peggiorata, il “Piano B” di Savona deve essere opportunamente integrato dai suggerimenti che dovranno essere rivolti alla Germania perché ritorni alla sua valuta originaria; tutto ciò, a dimostrazione del fatto che, quantomeno per Rinaldi, non è più possibile continuare a rimanere nel sistema dell’Eurozona. In ogni caso, egli avverte, il “ritorno alla lira” non deve essere inteso in senso letterale di “ritorno alla moneta vecchia, ma più propriamente come ritorno ad un’autonoma sovranità monetaria che consenta di disporre di tutti quegli strumenti di politica economica e monetaria propri di uno Stato sovrano”, progressivamente abbandonati per l’adesione alla moneta unica.
Al di là dei formalismi, costituzionali, economici e tecnici e della necessità di apportare all’impianto europeo i necessari correttivi, cosa prevedono i “Piani” dei quali parla Rinaldi riguardo all’impatto del “ritorno alla lira” sulla capacità d’acquisto degli italiani? In particolare, cosa prevedono riguardo alla necessità di migliorare l’efficienza del sistema Paese e riguardo alle risorse necessarie ed alle politiche più plausibili? Quelli che non sono disposti a “morire per Maastricht”, si sono mai chiesti perché si è giunti alla perdita di credibilità e di efficienza dell’economia italiana e delle ragioni per cui alcuni politici ed esperti autorevoli nazionali (come Ugo La Malfa e Guido Carli) hanno optato per l’accettazione dei “vincoli esterni”? Questi sono stati introdotti, non tanto per esercitare una pressione sull’immobilismo della classe politica nazionale, quanto per attenuare gli effetti di una politica economica che, imposta da partiti del tutto insensibili all’efficienza ed all’ordine di un sistema ad economia di mercato come quello italiano (soprattutto DC e PCI), ne surrogava la mancanza con continue svalutazioni della moneta nazionale, al fine di compensare i “regali” praticati sull’estero per sorreggere la competitività delle esportazioni con un aumento dei prezzi interni. I “nemici” dell’euro vogliono ritornare a questa pratica? Se non vogliono questo e se realmente avvertono l’urgenza di un ammodernamento istituzionale ed economico del Paese, con quali risorse pensano di finanziare le riforme necessarie? L’uscita dall’euro rappresenterebbe per l’Italia, non già il ricupero di una perduta sovranità, ma la perdita della necessaria “solidarietà” dei Paesi virtuosi europei che, al di là degli alti e bassi dello spread, hanno sinora finanziato il debito sovrano nazionale; perdendo questa opportunità, all’Italia non resterebbe che staccare un biglietto per avviarsi, sul piano politico e sociale, a un non auspicabile “inferno” senza ritorno.

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