Il dibattito sul fine vita

26 Aprile 2015
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Gianfranco Sabattini

Nel dibattito svoltosi di recente a Cagliari sul tema del “fine vita” per iniziativa del Comitato del “Mese dei Diritti Umani”, si è molto discusso sulle carenze legislative che impediscono in Italia la pratica dell’eutanasia. Il problema, tuttavia, è molto più generale, in quanto la libertà dei singoli di decidere autonomamente sugli aspetti più intimi e profondi della propria esistenza investe una problematica più estesa, che va ben al di là di quella riguardante i “malati terminali” e coloro che sono tenuti in vita artificialmente, a volte anche dopo aver perso ogni capacità di decisione autonoma.
Sul problema del fine vita esistono in Italia solo sentenze di organi giurisdizionali, non prive di difficoltà interpretative. Come in tutto il mondo, il dibattito che riguarda la legalizzazione o meno dell’eutanasia è ancora aperto ed è anche molto lacerante sul piano della vita pubblica; fatta eccezione per l’Olanda e la Svizzera, che consentono la pratica dell’assistenza a favore di chi decide di porre fine alla propria vita, il tema “sensibile” della “buona morte” è oggetto in Italia di approfonditi e radicali confronti tra le due subculture prevalenti, quella cristiano-cattolica e quella laica.
Secondo i cattolici, l’eutanasia è inaccettabile, in quanto violazione del quinto comandamento che vieta l’omicidio, ovvero del comandamento secondo il quale solo Dio è arbitro del destino dell’uomo, nel senso che così come Egli gli ha dato la vita, Egli solo può togliergliela. Sull’argomento, la cultura religiosa ufficiale non ammette “negoziazioni”, considerando l’eutanasia come l’esito utilitaristico intrinseco al materialismo del quale sarebbe vittima l’organizzazione delle singole società moderne.
Per la subcultura religiosa, l’eutanasia rappresenterebbe la “soluzione economica” dei problemi che affliggono le persone in corrispondenza ad uno stadio terminale irreversibile della propria esistenza, oppure non più autosufficienti. Vi sarebbero motivazioni inconfessabili, alla base della pretesa di legalizzare la libertà dei singoli di scegliere discrezionalmente la “buona morte; tali motivazioni riguarderebbero sostanzialmente l’ipotetica inutilità sociale dei malati terminali.
Con la legalizzazione dell’eutanasia, ad esserne colpito sarebbe, per la cultura religiosa, il legame sociale nel suo insieme; ciò perché la presunta “buona morte” non sarebbe ispirata dalla compassione e dall’amore per il prossimo, in quanto, una volta autorizzata, essa non sarebbe praticata per il presunto “nobile fine” di porre termine al dolore, ma solo per sgravare la società da “pesi” divenuti inutili. La legalizzazione dell’eutanasia, perciò, varrebbe solo a nascondere una regressione culturale e una dissoluzione del sentimento di appartenenza. L’umanità deve pertanto tenersi lontana dalla trappola del materialismo utilitarista del quale è portatrice la cultura laica.
Il “fronte religioso” non è tuttavia monolitico; alcuni importanti teologi cattolici, come Hans Kung e Vito Mancuso, sono favorevoli all’eutanasia. Il nuovo libro di Hans Kung “Morire felici? Lasciare la vita senza paura”, rilancia il dibattito sulla “dolce morte”; secondo il teologo tedesco, dal “diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita”, mentre “l’autodeterminazione fa parte della dignità umana”. L’aiuto a morire, perciò, deve essere inteso come estremo aiuto a vivere, nella consapevolezza che, se la vita è un dono di Dio, si deve anche accettare la possibilità di poter restituire gentilmente il dono ricevuto. Anche secondo Vito Mancuso, l’alleggerimento della sofferenza e il rispetto della libera autodeterminazione della coscienza, con senso di solidarietà e di vicinanza umana, costituisce il duplice punto di vista a partire dal quale occorre disporre la mente di fronte al grave e urgente problema dell’eutanasia o suicidio assistito.
Se la posizione ufficiale della Chiesa cattolica è per una condanna dell’eutanasia, diversa è la visione della subcultura laica. I sostenitori laici della buona morte, pur avendo al riguardo opinioni diverse sul piano etico e politico, condividono alcuni principi di libertà, propri della tradizione dello Stato costituzionale democratico. Il pensiero laico, partendo dalla divisione tra Chiesa e Stato, avanza la pretesa di affermare, all’interno dell’organizzazione della società civile, la piena libertà di scelta dei cittadini riguardo all’opzione personale di ricorrere, in presenza di particolari condizioni esistenziali, al suicidio assistito.
Se all’interno di una società democratica costituzionalmente bene ordinata non fosse garantita la libertà dei singoli individui sugli aspetti più intimi e profondi della propria vita da una legislazione che legalizza l’eutanasia, una specifica opinione culturale di una parte della società civile (quella religiosa) si trasformerebbe nella volontà della comunità nel suo complesso, in contrasto con il pluralismo della tradizione giuridica dello Stato costituzionale. Quest’argomentazione è sostenuta, in Italia, dagli estensori del Manifesto di bioetica laica; il Manifesto, infatti, difende i principi generali di autonomia e di pluralismo religioso nelle scelte significative che riguardano la vita e la morte dei componenti della società civile.
Per il primo di tali principi, ogni individuo ha pari dignità, e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui, in tutte le questioni riguardanti la sua salute e la sua vita; ciò significa che la sfera delle decisioni individuali su problemi come quello del fine vita deve essere allargata ben al di là di quanto oggi non accada. Per il secondo principio, invece, quello del pluralismo, deve essere garantito il rispetto di tutte le convinzioni religiose e laiche; ciò significa che, quando sono in gioco scelte difficili, come quella del fine vita, il problema da risolvere per il religioso e per il laico non è quello di imporre una visione “superiore”, ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto, evitando che siano conculcati i loro valori e le loro credenze.
Ad ogni individuo, quindi, all’interno di uno Stato costituzionale bene ordinato, deve essere garantito il diritto di considerare le scelte personali più intime come assi centrali della propria dignità ed autonomia decisionale. Questo diritto deve essere considerato in termini ben più generali rispetto al diritto dello Stato di esercitare ogni e qualsiasi forma di controllo, riguardo al tempo e al modo in cui ognuno può decidere sulla propria buona morte.
In Italia, la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo; ciò significa che lo Stato trova i diritti fondamentali della persona come preesistenti a sé; pertanto, lo Stato non deve creare tali diritti, ma deve semplicemente dichiararli, evidenziando l’inviolabilità di ogni membro della comunità. Ciò implica anche che lo Stato, attraverso la sovranità della legge, non possa imporre alcuna uniforme concezione generale riguardo alla salvaguardia della dignità personale, ma debba solo limitarsi a regolare le modalità con cui le persone possono dare esse stesse disposizioni per essere assistite nel “momento finale”, oppure debba estendere la facoltà di decidere, in vece loro, ai familiari o alle persone intime.
La tolleranza – come afferma Ronald Dworkin in “I diritti presi sul serio – deve essere considerato il prezzo che ognuno è chiamato a pagare per la sua avventura nella libertà”, dato che “nessuna vita è buona se vissuta contro le proprie convinzioni”; ciò significa che, per ciascun individuo, è importante il come si muore, il ricordo che vuol lasciare di sé stesso, il giudizio negativo su una sua dipendenza totale dall’aiuto altrui, il rifiuto di una vita totalmente artificiale, la previsione di dolori intollerabili nella fase terminale ed altro ancora. Per molti – ancora secondo Dworkin - vale la speranza che “la loro morte esprima […] i valori che reputano i più importanti della loro vita”: come c’è una ragione per vivere, c’è una ragione per morire, onde evitare “una vita vegetale”.
L’impossibilità di pervenire alla soluzione condivisa del problema del fine vita è riconducibile, in Italia, all’’intolleranza di chi considera dogmaticamente la vita “un dono sacro” nei confronti di chi la considera, senza la necessità di dogmi, semplicemente inviolabile. Le dispute tra le due subculture, quella religiosa e quella laica, influenzano tutto il discorso pubblico sul fine vita e la difficoltà di pervenire ad una regolazione condivisa è aggravata dall’incoerenza dei cosiddetti “atei devoti”; la presenza trasversale di questo in tutte le forze politiche aggroviglia, per basse ragioni elettorali, il discorso, impedendo che su un argomento tanto delicato qual è quello della buona morte possa calare finalmente un velo pietoso, per porre fine al confronto infinito tra le pretese delle due subculture prevalenti; confronto, questo, sinora prolungatosi a spese di chi non può porre rimedio alle proprie sofferenze avvalendosi del diritto pre-politico del quale dispone.
 

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