La Grande Guerra raccontata agli studenti

10 Maggio 2015
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Maurizio Cocco

Pubblichiamo l’intervento di un giovane storico all’incontro con gli studenti sulla Grande Guerra, organizzato nei giorni scorsi dal CIDI al Convitto di Cagliari.

Nella primavera del 1900, a Parigi, si inaugurò l’esposizione universale. Come oggi, non tutti i commenti della stampa erano entusiasti: i padiglioni non erano pronti, numerosi cantieri erano ancora aperti e pochi apprezzavano la gigante statua di una donna in abito da sera posta al suo ingresso. L’esposizione doveva rappresentare, come dichiarato dal paese ospitante, un simbolo di pace e armonia, un modo per segnare la fine di un secolo, il Diciannovesimo, che era cominciato con guerre e rivoluzioni e si concludeva innalzandosi sui pilastri di prosperità, pace e progresso. Poche guerre e di breve durata avevano segnato l’Europa dopo il congresso di Vienna del 1815. L’Europa coltivava una sincera fiducia nel futuro dell’umanità e della sua razionalità. Ma le cose erano destinate a cambiare radicalmente nel giugno del 1914, quando si inaugurò la prima delle inutili stragi del nuovo secolo.
Un’immagine riassume meglio di tante altre la prima guerra mondiale. Il 25 agosto, le truppe tedesche asserragliate nella cittadina Belga di Louvain, nervose e ubriache, intimorite da un eventuale attacco inglese e provate dall’inaspettata resistenza belga, cominciarono a rastrellare le case. Il sindaco e il rettore dell’università (eretta nel 1420)vennero fucilati sul posto. 250 cittadini furono uccisi e 1.500 (su una popolazione di 10.000) spediti in Germania su un treno. Poi i soldati tedeschi saccheggiarono la città e appiccarono il fuoco. 11.000 delle 9.000 abitazioni di Louvain furono distrutte. Intorno  alla mezzanotte la biblioteca della città, che conteneva 200.000 volumi, fu data alle fiamme. Migliaia di persone, trascinandosi dietro poche cose lasciarono la città. Questa è un’immagine che divenne tristemente ricorrente nelle memorie dell’intero XX secolo. Poco dopo il sacco di Louvain la cattedrale di Reims, vecchia di 700 anni, che aveva visto numerosi re essere incoronati, venne polverizzata dalle armi tedesche.
Durante il corso della guerra morirono 9 milioni di soldati e 15 milioni furono feriti e Louvain divenne il simbolo della distruzione insensata e dei danni che gli europei inflissero a se stessi, dell’odio irrazionale e incontrollabile fra persone che avevano così tanto in comune.
Ci sono diverse condizioni che premettono la Grande Guerra. La prima è la situazione balcanica, una regione nella quale dalle recenti guerre (1912-1913) fra gli stati della zona e l’impero ottomano era emersa la Serbia quale potenza catalizzatrice della zona. Una Serbia sotto la protezione della Russia e in diretto contrasto con l’impero austro-ungarico.
L’impero austro-ungarico era un’entità quasi anacronistica nell’Ottocento del risveglio nazionale: era un impero multi-etnico e multi-confessionale e al suo interno esplosero forti sentimenti nazionali (non ultima l’Italia).
Proprio da un precedente conflitto con l’impero, nel 1866, era emersa la Prussia, capace di catalizzare il processo di unificazione tedesco. All’alba del nuovo secolo, la Germania aveva ambizioni imperiali, era rimasta esclusa dalla spartizione dei continenti (le nazioni europee nel 1900 controllavano l’84% del mondo), voleva mettere in discussione l’egemonia britannica nel mare del Nord. I contrasti fra le due nazioni erano emersi durante la guerra anglo-boera in Sudafrica, nei primi anni del secolo, quando il pubblico tedesco, a partire dal suo imperatore, mostrava simpatia per la causa boera. Ma quando la regina Vittoria morì, lo fece fra le braccia del Kaiser Guglielmo, suo nipote, accorso al suo capezzale. La conquista tedesca delle regioni dell’Alsazia e della Lorena nella guerra con la Francia del 1870 avevano generato un profondo contrasto fra le due potenze.
Le stesse relazioni diplomatiche interne all’Europa avevano visto formarsi la Triplice Alleanza fra Italia, Austria e Germania e l’Intesa cordiale fra Francia e Russia alla quale si era poi aggiunta l’Inghilterra.
A ciò si sommavano le idee: il concetto di nazione così tipico del XIX secolo era degenerato in nazionalismo, il darwinismo sociale (figlio bastardo dell’evoluzionismo darwiniano), il militarismo, così ben rappresentato nei padiglioni dedicati ai progressi nel campo delle armi all’esposizione universale di Parigi. A queste idee si aggiungono paure e prestigio. L’imperatore tedesco Gugliemo venne accusato di codardia per la crisi marocchina, lo Zar Nicola II era stato umiliato nella guerra con il Giappone fra il 1904 e il 1905.
Perciò, quando il 28 giugno 1914, a Sarajevo, un ventenne bosniaco, Gavrilo Princip, uccise l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, non fece altro che detonare una bomba già carica. Come dichiarò al suo processo, l’attentatore mirava all’unificazione di tutta la Yugoslavia sotto un unico stato e libera dagli austriaci. Compiendo quel gesto, Gavrilo avrebbe aperto il vaso di pandora della modernità. Se ipoteticamente volessimo fare gli hegeliani, il giovane bosniaco altro non era che uno strumento dell’astuzia della ragione.
Gavrilo era un ragazzo introverso, figlio di un contadino che sognava di fare il poeta. Nel 1911 era entrato nel mondo sotterraneo della politica rivoluzionaria e con altri suoi compagni dei Giovani Bosniaci si era impegnato in azioni terroristiche contro importanti bersagli. Le armi utilizzate per l’attentato furono gentilmente offerte ai cospiratori dall’esercito serbo. Subito dopo aver sparato, Princip provò a suicidarsi, ma fu fermato dalla folla. In realtà però, uccidendo Francesco Ferdinando, Princip aveva ucciso l’unica persona vicina al vecchio imperatore Francesco Giuseppe che continuava a consigliargli la via della pace.
L’Austria aveva visto l’attentato come una provocazione serba e l’attentato le dava il pretesto per risolvere il problema degli slavi del sud una volte per tutte, ovvero distruggere la Serbia. Il 6 luglio, con un telegramma indirizzato all’imperatore d’Austria, la Germania firmava, così come lo hanno definito gli storici, un assegno in bianco in termini di supporto per il suo alleato.
Nella seconda settimana di luglio fu preparato un ultimatum, in questo si chiedeva alla Serbia di deporre i suoi ufficiali civili e militari non graditi all’Austria, bandire le associazioni segrete e la stampa nazionalista, e di eliminare dai curricula scolastici ciò che poteva costituire propaganda anti-austriaca. Il re avrebbe dovuto inoltre proclamare pubblicamente che non avrebbe più seguito il sogno di una Grande Serbia. Per fare ciò, i serbi avrebbero dovuto permettere l’insediamento a Belgrado di un’agenzia austriaca che controllasse la realizzazione di questi atti. L’Austria si impegnò, senza riuscirci, a legare l’attentato direttamente alla volontà serba. La situazione rimase però calma. Il 23 luglio una copia dell’ultimatum venne consegnata dall’ambasciatore austriaco a Belgrado, July Giesl. La Serbia doveva rispondere entro le 6 pomeridiane del 25 luglio. Mentre il governo serbo meditava su come rispondere, l’ambasciatore russo offrì il pieno supporto del proprio paese.
La Serbia si rifiutò di accettare quelle clausole che interferivano con i suoi affari interni: di accettare cioè la partecipazione diretta dell’Austria nella soppressione della sovversione all’interno dei confini serbi e la partecipazione alle indagini e al processo di qualsiasi cospiratore serbo ritenuto responsabile. Il 28 luglio 1914, l’Austria le dichiarava guerra.
Mentre l’Italia cercava una ragione plausibile per evadere gli obblighi che la Triplice Alleanza le imponeva, la Germania era pronta per la guerra, essendo convinta che la Francia non sarebbe intervenuta. Il ministro degli esteri italiano San Giuliani mantenne la posizione che l’Italia non era obbligata a intervenire in una guerra che non fosse difensiva, ma che avrebbe potuto cambiare idea dietro la promessa di compensazioni territoriali riguardanti quelle zone dell’impero abitante da parlanti italiano. Il 2 agosto l’Austria, che definì gli italiani conigli inaffidabili escluse questa possibilità, soprattutto per la città di Trieste, dominio personale dell’imperatore, e il giorno successivo il governo italiano  dichiarò la sua neutralità.
Contemporaneamente la Russia mobilitò parte del suo esercito al confine con l’impero, dato che l’Austria aveva già mobilitato il suo e la Germania aveva richiamato i soldati in licenza. Il 29 luglio lo zar Nicola mandò un telegramma all’imperatore Guglielmo, suo erzocugino, chiedendo il suo aiuto per mantenere la pace. Lo avvisava che presto sarebbe stato costretto a prendere delle decisioni che avrebbero portato alla guerra. Guglielmo non ne fu influenzato, i due continuarono a scambiarsi telegrammi: il 30 lo zar descrisse la sua mossa come difensiva, ma il kaiser la interpretava invece come un modo di mettersi avanti con i tempi. Gli ufficiali dello zar spingevano per una mobilitazione generale, convinti che altrimenti il paese fosse in parte scoperto. Nicola II, figlio dell’imponente Alessandro III,  divenne zar sentendosi inadeguato a questo incarico: era forse più adatto a fare il sindaco di una piccola città, che ad affrontare i problemi del suo impero a cavallo dei secoli. Era indeciso e confuso e facilmente manipolabile. Quando firmò l’ordine di mobilitazione generale, non sapeva che corrispondeva di fatto a una dichiarazione di guerra, perché richiamare quattro milioni di soldati rendeva impossibile rispedirli a casa e aspettarsi poi che rispondessero a una eventuale seconda chiamata.
Il primo agosto,l’ambasciatore tedesco a San Pietroburgo chiese al ministro Sazonov per tre volte se la Russia fosse disposta ad accettare la domanda tedesca di bloccare la mobilitazione. Al suo rifiuto, l’ambasciatore gli consegnò una lettera, poi andò alla finestra e pianse. «Non avrei mai immaginato di dover lasciare San Pietroburgo a queste condizioni» disse. Il giorno dopo il personale dell’ambasciata tedesca lasciò la Russia con un treno che partiva dalla stazione Finlandia.
Intanto in Francia, la sera del 30 luglio, il socialista francese Jaurès fu ucciso da un nazionalista che considerava il suo internazionalismo pacifista dannoso per il paese. Tre giorni dopo, la Germania dichiarò guerra anche alla Francia. Attaccò passando per il Belgio (neutrale dalla sua costituzione nel 1830) e il 4 agosto l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania.
La guerra stabilizzò così su due fronti, quello orientale e quello occidentale. Nel frattempo in Italia si era accesso un dibattito fra neutralisti e interventisti. Il presidente del  consiglio Antonio Salandra e il suo ministro degli esteri Sidney Sonnino speravano di poter guadagnare qualcosa da un ingresso italiano nel conflitto a fianco dell’Intesa. Il 26 aprile 1915 a Londra si impegnarono in questo senso, in cambio l’Italia avrebbe ottenuto le cosiddette terre Irredente: il Trentino, il Tirolo, Trieste e Gorizia, l’Istria, la Dalmazia. Il  4 maggio i primi fanti varcarono il Piave.
La guerra, così come appare anche dalle descrizioni di chi ne scrisse dopo averla vissuta (non ultimo Emilio Lussu) era associata all’immagine della noia. Fu una guerra di logoramento, con due schieramenti asserragliati nelle trincee, votati a inutile e sanguinarie cariche contro lo schieramento nemico. Nessuno pensava che sarebbe durata così a lungo, nell’agosto del 1914 i soldati al fronte, nelle loro lettere si dicevano convinti di passare il Natale a casa. Gli esperti finanziari erano convinti che così sarebbe andata: la fine dei commerci e l’incapacità dei governi di ottenere prestiti avrebbe reso impossibile proseguire le ostilità. Ma la guerra proseguì e nella sola estate del 1916 l’offensiva russa produsse un milione e mezzo di morti.
Ogni volta che la sproporzione numerica fra i due eserciti non era evidente, la battaglia si risolveva in una mischia in cui le fanterie di entrambi gli schieramenti venivano massacrate dalle artiglierie. Ai morti in battaglia si sommavano i soldati fucilati per ordine del loro stato maggiore perché membri di un battaglione accusato di codardia. In Italia, ancora oggi i loro nomi non figurano sulle lapidi e sono considerati disertori.
Nel 1917 ci furono due svolte. A marzo una rivoluzione contro lo zar Nicola II in Russia che a novembre si trasformò in rivoluzione bolscevica e portò questo Paese fuori dal conflitto. In aprile, invece, gli Stati Uniti entrarono in guerra, intervenendo per la prima volta in un conflitto europeo. In realtà la loro politica estera era stata votata all’isolazionismo da sempre, un isolazionismo che nel 1823 il presidente Monroe aveva codificato in una dottrina: gli Stati Uniti avrebbero dovuto interessarsi soltanto del continente americano.
Ma la guerra sottomarina tedesca a danno anche di navi americane e l’idealismo del presidente democratico Woodrow Wilson — assieme alle informazioni inglesi per cui la Germania stesse cercando di convincere Messico e Giappone ad attaccare gli Stati Uniti —portarono nell’aprile del 1917 gli Stati Uniti in guerra. Il predecessore di Wilson, Theodore Roosevelt aveva parlato il 4 agosto del 1914 di un tornado nero che si era abbattuto sull’Europa. Nel chiedere al Congresso l’autorizzazione di dichiarare guerra, Wilson chiedeva di costruire un mondo sicuro per la democrazia.
Le forze contro gli imperi centrali divennero troppo grandi e l’11 novembre i cannoni tacquero.
Il 18 gennaio 1919 iniziò la conferenza di pace a Versailles. Ne era il principale ispiratore proprio Wilson e una sua agenda in 14 punti incentrata sull’abolizione della diplomazia segreta , sulla libertà di movimento e di commercio e sul principio di autodeterminazione dei popoli.
I risultati furono, con il senno di poi, disastrosi. Il principio di autodeterminazione dei popoli (Sudeti, Tirolo, Trieste) si rivelò di difficile applicazione, i paesi sconfitti furono smembrati (come nel caso dell’Austria-Ungheria e dell’impero Ottomano) o puniti severamente (come la Germania). Pochi furono pienamente soddisfatti del nuovo assetto, a partire dall’Italia che abbandonò il tavolo delle trattative. L’economista John Maynard Keynes, al seguito della delegazione britannica, avvertì da subito che la pace e le sue dure condizioni preparavano il terreno per una nuova guerra.
L’Europa pagò un prezzo terribile: i veterani che non si ripresero mai, le vedove, gli orfani, l’epidemia di influenza spagnola che uccise 20 milioni di persone nel dopoguerra, le carestie perché non c’era più nessuno per coltivare i campi o portare il cibo nei mercati, la diffusione di estremismi politici poi rivelatisi fatali. I quattro imperi superstiti comparirono e rimasero solo due imperi coloniali.
La guerra chiuse un secolo, un’era. Lo storico Eric Hobsbawm ha coniato la definizione di un Lungo Ottocento che finisce nel 1914, quando ha inizio un Secolo Breve, il Novecento. Lo stesso Keynes e tutti quelli della sua generazione si ritrovarono spesso a parlare di un mondo perduto, un tema diffuso fra la generazione nata negli anni ’70 e ’80 del diciannovesimo secolo, abbastanza vecchi da ricordare la fiducia e la sicurezza di quegli anni e l’ottimismo del primo decennio del nuovo secolo, ma che vissero abbastanza a lungo da testimoniare il collasso di un mondo che era sembrato destinato a una condizione di permanente benessere. La guerra segnò le persone che la combatterono e che la vissero, creò una schiera di persone che, tornate dal fronte, chiedevano ciò che pensavano di aver lì maturato. Il ministro degli esteri inglese Edward Grey scrisse che nel 1914 i lampioni si spensero in Europa per non accendersi più, lo scrittore satirico Karl Kraus trovò nella guerra il materiale per descrivere gli ultimi giorni dell’umanità. Il papa Benedetto XV la definì un’inutile strage. Alla fine della seconda guerra mondiale, il filosofo Benedetto Croce guardò con nostalgia al mondo lieto di speranze e fiducia che la guerra aveva sepolto, mentre il giornalista Giovanni Ansaldo la salutava come la fine dell’unico periodo di bella vita concesso al nostro paese. L’intellettuale Giuseppe Prezzolini, che nel primo Novecento aveva combattuto per un completo rinnovamento di quel mondo, e che era partito volontario nella Grande Guerra, tanti anni dopo scrisse che «quando con il luglio 1914 si aprì la gran cateratta delle ambizioni e degli odi dei popoli, e l’epoca del fuoco dal cielo s’iniziò, ci vollero ancora degli anni per persuadermi di ciò che stava accadendo e di quello che s’era perduto». Negli stessi termini aveva scritto il filosofo inglese Bertrand Russell. E nulla meglio di una sua lettera datata 1916 e indirizzata al presidente americano Wilson descrive il dramma della guerra: «La paura è penetrata nell’intimo dell’essere stesso degli uomini e, come sempre, a essa si accompagna l’efferatezza. L’odio è divenuto la regola della vita e il danno altrui più ambito del bene proprio. Le speranze di un pacifico progresso che illuminarono i nostri primi anni sono morte e non potranno rivivere mai più. Il terrore e la violenza impregnano l’aria stessa che respiriamo. Le libertà che i nostri antenati conquistarono attraverso lotte secolari sono state sacrificate in un solo giorno, e tutte le nazioni sono irreggimentate all’unico scopo di distruggersi a vicenda».
Probabilmente gli anni ’20 e ’30 furono solo una pausa in quella che diversi studiosi chiamano, includendo la guerra che sarebbe scoppiata nel ’39, una nuova guerra dei trent’anni.
I legami che avevano costruito un’Europa pacifica e prospera vennero rapidamente  tagliati: linee del telegrafo, ferrovie, trasporti navali, commerci. Con il senno di poi la guerra ci appare uno sviluppo necessario. Tali erano le condizioni iniziali, che non potevano  esistere alternative. Nell’estate del 1914, i leader europei scelsero deliberatamente per la guerra e non furono capaci di opporsi. Gli europei accolsero la guerra con reazioni contrastanti: shock, divertimento, profonda tristezza, rassegnazione. La guerra non era però l’unica alternativa, l’Europa avrebbe potuto prendere un’altra strada, ma non lo fece. Chi portò l’Europa in guerra non intravide la potenzialità  distruttiva del conflitto e non ebbe il coraggio di schierarsi contro chi diceva loro che non c’era altra scelta che entrare in guerra.
Ci sono sempre altre scelte.

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