Ladu e Scarpa, la festa è finita

18 Giugno 2015
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Andrea Pubusa

Non mi piace gioire per le disgrazie altrui, tanto meno per le condanne, e tengo sempre a mente che la sentenza vera, quella che conta è l’ultima, quella definitiva. Questa è solo la prima.
Certo è che se i due ex consiglieri hanno usato i fondi come ormai dice la sentenza sei anni di reclusione per Silvestro Ladu, quattro anni e mezzo per Beniamino Scarpa, non è una condanna fuori misura.
Mi spiego. Si tratta di persone chiamate ad una grande funzione ed al massimo onore, quello di rappresentare i propri concittatdini nella più alta Assemblea regionale. Chi - come me - ha avuto questa gratificazione due volte, sa quali sentimenti genera l’elezione e quale senso di respondabilità crea. L’elezione ti carica dell’onore e dell’onere di occuparti dei problemi della tua comunità ed è frutto di una grande apertura di credito, di una fiducia nella tua capacità di fare il bene generale. Questi furono i pensieri che mi accompagnarono dopo l’elezione e che mi sono rimasti scolpiti, al pari del dovere di dover restituire qualcosa ai sardi. Anche l’impegno a tenere questo blog e a seguire le vicende della nostra Regione come osservatore, non potendolo più fare da attore per impraticabilità del campo, è un modo per pagare quel debito, per restituire alla comunità, secondo scienza e coscienza, quanto generosamente ricevuto. Sì perché l’elezione ad una carica pubblica è un dono generoso dei concittadini, il più grande, così come è il più grave dei tradimenti il venire meno a quella fiducia.
Ecco, a fronte della elezione, il primo pensiero di questi personaggi, stando alla sentenza e in attesa di eventuale smentita nei successivi gradi di giudizio, è non alla funzione, al dovere, al servizio, ma al privilegio economico, al tornaconto personale. Ladu è accusato di aver speso illegalmente 279 mila euro provenienti dal fondo destinato al suo gruppo politico nella legislatura 2004-2009. Pagamento coi soldi del gruppo perfino dei sensori per l’auto, riparazioni alla vettura della moglie e un ricevimento da 860 euro, a Bitti nel luglio del 2004, dopo le elezioni: festeggiamento coi soldi del gruppo, addirittura ex ante, prima ancora di costituirlo. Segno inequivocabile del primo dei suoi pensieri appena finito lo spoglio.
Scarpa invece, con 116 mila euro del gruppo, ha provveduto, fra l’altro, all’acquisto di una Audi per oltre 30 mila euro, a parole per i collaboratori, in realtà per la moglie.
L’opinione pubblica è sconcertata e si domanda come mai non c’è obbligo di rendiconto. Semplice. Il Consiglio regionale è stato pensato come un piccolo parlamento e ai parlamentari è stato dato il credito dell’onestà e dell’autocontrollo. Oggi, però, corrono tempi tristi e quell’impostazione fondata su una visione nobile ed alta della politica non regge più alla prova dei fatti. Appare ingenua e inadeguata.
Il punto debole della vicenda sta nella spartizione dei fondi dei gruppi fra i consiglieri. Ai miei tempi, nel gruppo PCI, eravamo noi a dare al gruppo e non viceversa. I fondi del fruppo erano amministrati da un tesoriere eletto fra i membri del gruppo, che spendeva solo su deliberazione del gruppo, al quale rendeva annualmente il conto. Si stampava in molte copie un diffusissimo mensile sull’attività del gruppo, diretto da Giuseppe Podda. Nessuno di noi ha mai avuto nel suo conto una lira del gruppo. Impossibile compiere i reati oggi contestati a così tanti consiglieri. Se la Barracciu fosse in quei tempi andata a svolgere una riunione a Nuoro avrebbe dovuto chiedere il rimborso-benzina al tesoriere, non disporre direttamente delle somme.
Un rimedio? Il più semplice? Forse si potrebbe imporre la nomina formale per ciascun gruppo di un tesoriere con l’obbligo di rendiconto al gruppo e al Consiglio di presidenza o ai questori. Forse un responsabile dell’amministrazione dei fondi e del rendiconto può essere un antidoto efficace all’utilizzo personale delle risorse destinate all’attività dei gruppi consiliari.
Ci sarebbe certo una limitazione drastica di questo andazzo. Non lo si eliminerebbe del tutto, perché - si sa - fatta la legge, inventato l’inganno. Se non c’è etica pubblica, la legge è un argine debole.

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