Enti locali sardi: un’altra occasione mancata

20 Febbraio 2016
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Gianfranco Sabattini

Dopo tanti penosi mercanteggiamenti tra le forze politiche che siedono in un Consiglio regionale scarsamente rappresentativo dei sardi, è stata finalmente approvata la Legge n. 2/2016, riguardante il “Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna”.
A quale modello istituzionale si ispira la riforma approvata? Ad un modello che conferma le logiche di un regionalismo accentratore, ormai superato, o a quello di un nuovo regionalismo rafforzato, fondato su una riforma della Regione e dello Stato in senso federalista? A queste domande la legge regionale non dà la benché minima risposta; ancora una volta, in sede di riforma istituzionale, si è preferito cominciare dalla coda del problema, con l’unica preoccupazione di soddisfare improbabili “interessi particolari”, mediante una sterile conflittualità fra i rappresentanti politici dei diversi territori regionali; fatto, questo, che avrà come conseguenza l’ulteriore indebolimento dell’autonomia regionale, il peggioramento del rapporto fra cittadini ed istituzioni e l’affievolimento della solidarietà fra i territori.
Prescindendo dal mancato riferimento alla riforma dello Stato, il Consiglio regionale avrebbe dovuto, almeno in ordine logico, affrontare prima la riforma della Regione (dopo aver delineato ed approvato un nuovo modello di crescita e sviluppo), per poi arrivare alla riforma degli enti locali; invece, è stata realizzata una maldestra manipolazione dei principi ispiratori della cosiddetta “Legge Delrio”. Nonostante l’esito del referendum sulla abolizione delle Province, la legge regionale ha creato un insieme di nuovi “istituti” privi di ogni valenza, sia politica che economica: unioni di comuni, reti metropolitane, reti urbane, ecc. Anziché snellire la vecchia ed obsoleta struttura delle autonomie locali, si è preferito percorrere, senza alcuna ragione, la strada della moltiplicazione degli enti. Così, con la nuova legge, anziché dare una risposta alle legittime aspirazioni dei territori, di poter partecipare ai processi decisionali destinati a coinvolgerli direttamente, si è preferito affrontare la riforma sulla base delle “alchimie” dei compromessi, che non faranno altro che ostacolare le relazioni fra le diverse aree sub-regionali, rendendo più difficili i processi di aggregazione dei comuni, previsti dalla stessa legge.
Per tutte le considerazioni sin qui svolte, non si può che riconoscere come la nuova legge sugli enti locali, appena approvata, sia largamente insufficiente, in quanto disattende la considerazione del “ruolo strategico” che le autonomie locali potrebbero svolgere, nella prospettiva dell’attuazione di politiche destinate a supportare un processo di crescita e di sviluppo locale.
L’azione riformatrice regionale avrebbe potuto essere meglio finalizzata, se fosse stata orientata, innanzitutto a ristrutturare in senso federalistico l’organizzazione complessiva della Regione, per “dare voce” a tutte le singole sub-aree regionali, al fine di promuovere l’autonoma capacità progettuale all’interno di ciascuna di esse; in secondo luogo, essa avrebbe dovuto favorire un ripensamento innovativo delle ipotesi di crescita e sviluppo dell’Isola, per la valorizzazione delle opportunità dei singoli territori regionali; infine, sarebbe stato necessario conformarla alla riscrittura dello Statuto, in modo da farlo risultare “aperto” al coinvolgimento nei processi decisionali regionali i livelli di governo sotto-ordinati.
Il Consiglio regionale aveva la possibilità di riformare la struttura degli enti locali, per assicurare a tutti i territori sub-regionali l’organizzazione istituzionale più conforme alle loro possibilità di crescita e sviluppo. Una prima fondamentale esigenza avrebbe dovuto riguardare l’adozione, da parte di tutti gli enti locali, del metodo della “pianificazione strategica”, come strumento di definizione di un proprio modello di crescita e sviluppo. Nel contempo, la nuova legge regionale avrebbe dovuto precisare le modalità operative per un più stretto raccordo dei piani strategici dei singoli territori con la pianificazione strategica di livello sovra-ordinato (regionale, nazionale, europeo) e sotto-ordinato (comuni, unioni dei comuni, area metropolitana, ecc.).
In conclusione, la riforma delle autonomie locali si sarebbe dovuta compiere secondo due linee di azione riformatrice, concernenti, da un lato, il cambiamento dell’assetto istituzionale e, dall’altro lato, la creazione di condizioni utili a garantire a città e territori competitività e attrattività. Ciò avrebbe consentito di prefigurare una idonea prospettiva di azione, politica ed economica, per affrontare i problemi degli squilibri territoriali che la Sardegna ancora presenta al proprio interno.

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