Reddito di cittadinanza, anche Bertrand Russell ci aiuta a capire

16 Dicembre 2018
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Red

Bertrand Russell nel 1935 ha scritto questo articolo intitolato “elogio dell’ozio”, come il libro del genero di Marx, Paul Lafargue (1872). Il filosofo inglese, riprendendo le suggestioni lanciate da John Maynard Keynes pochi anni prima, ci aiuta a capire come il dividendo sociale o reddito di cittadinanza è una misura universale di una società più giusta e felice. Ne pubblichiamo uno stralcio, consigliando la lettura completa.

Come molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice “l’ozio è il padre di tutti i vizi”.  … [Tuttavia] molte idee che noi accettiamo ad occhi chiusi a proposito delle virtù del lavoro […] non si adattano più al mondo moderno perché la loro origine è preindustriale… La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi….  La tecnica moderna infatti ha reso possibile di diminuire in misura enorme la quantità di fatica necessaria per assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento…. Se il salariato lavorasse quattro ore al giorno, ci sarebbe una produzione sufficiente per tutti e la disoccupazione finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di organizzazione. Questa idea scandalizza la gente perbene, convinta che i poveri non sappiano che farsene di tanto tempo libero… Bisogna [invece] ammettere che il saggio uso dell’ozio è un prodotto della civiltà e dell’educazione.
Quando propongo che le ore lavorative siano ridotte a quattro, ciò non implica che il tempo libero rimanente debba essere impiegato in frivolezze. Intendo semplicemente dire che quattro ore di lavoro al giorno dovrebbero poter assicurare a un uomo il necessario per vivere con discreta comodità, e che per il resto egli potrebbe disporre del suo tempo come meglio crede. In un sistema sociale di questo genere è essenziale che l’istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che miri, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero. Non alludo qui a quel genere di occupazioni che si usano definire “intellettuali”. Le danze folcloristiche, ad esempio, sono praticate soltanto da pochi gruppi di volenterosi, ma gli impulsi che le fecero nascere debbono pur sempre esistere nella natura umana. I piaceri della popolazione urbana sono diventati soprattutto passivi: sedersi in un cinema, assistere a una partita di calcio, ascoltare la radio e cosi via. Questa e la conseguenza del fatto che tutte le energie attive si esauriscono nel lavoro. Se gli uomini lavorassero meno, ritroverebbero la capacita di godere i piaceri cui si partecipa attivamente.

         In passato vi era una piccola classe di persone quasi oziose e una vasta classe di lavoratori. La prima godeva dei vantaggi che non sono nemmeno contemplati dalla giustizia sociale, ed era di conseguenza prepotente, godeva di scarse simpatie e doveva inventare delle teorie per giustificare i propri privilegi. Questi fattori diminuirono in modo rilevante la sua eccellenza; ciò nonostante si può dire che essa contribuì in modo quasi esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà. Fu questa classe che coltivò le arti e scoprì le scienze, che scrisse libri, invento sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la liberazione degli oppressi partì generalmente dall’alto. Senza una classe oziosa, l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie.

         Il sistema dell’ereditarietà, che permetteva all’aristocrazia di tramandare di padre in figlio privilegi senza doveri, implicò tuttavia un notevole spreco. Nessuno dei membri di quella classe aveva imparato ad essere operoso, e tutti, presi nel complesso, non erano eccezionalmente intelligenti. Tra loro poteva sì nascere un Darwin, ma sull’altro piatto della bilancia stavano decine di migliaia di gentiluomini di campagna che non avevano mai fatto nulla di più ingegnoso che cacciare la volpe o punire i bracconieri. Attualmente le università dovrebbero produrre in modo sistematico ciò che la classe aristocratica produsse accidentalmente e quasi per caso. Ciò rappresenta un bel passo avanti, ma ha i suoi inconvenienti. La vita universitaria e cosi diversa dalla vita reale in senso lato che chi vive in un milieu accademico finisce col non rendersi più conto delle preoccupazioni e dei problemi degli uomini e delle donne comuni; inoltre il modo di esprimersi dei professori universitari è tale da impedire che le loro opinioni abbiano l’influenza che meriterebbero sul grosso pubblico. Un altro svantaggio è che nelle università gli studi sono disciplinatissimi, e l’uomo che segua una linea originale di ricerca rischia di venire scoraggiato. Le istituzioni accademiche dunque, sebbene utili, non riescono a proteggere adeguatamente gli interessi della civiltà in un mondo dove al di fuori delle mura universitarie tutti sono troppo occupati nel perseguimento di scopi utilitari.

         In un mondo invece dove nessuno sia costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi l’attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi l’indipendenza necessaria alla produzione di opere geniali (che poi non scriveranno più perché, al momento buono, ne avranno perso il gusto e la capacità). Gli uomini che nel corso del lavoro professionale si siano interessati all’economia o ai problemi di governo, potrebbero sviluppare le loro idee senza quel distacco accademico che dà un carattere di impraticità a molte opere degli economisti universitari. I medici avrebbero il tempo necessario per tenersi al corrente dei progressi della medicina, e i maestri non lotterebbero disperatamente per insegnare con monotonia cose che essi hanno imparato nella loro giovinezza e che, nel frattempo, potrebbero essersi rivelate false.

         Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia.

Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui. Almeno l’uno per cento della popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun freno verrebbe posto alla originalità delle idee. Ma i vantaggi di chi dispone di molto tempo libero possono risultare evidenti anche in casi meno eccezionali. Uomini e donne di media levatura, avendo l’opportunità di condurre una vita più felice, diverrebbero più cortesi, meno esigenti e meno inclini a considerate gli altri con sospetto. La smania di far la guerra si estinguerebbe in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti. Il buon carattere e, di tutte le qualità morali, quella di cui il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato della pace e della sicurezza, non di una vita di dura lotta. I moderni metodi di produzione hanno reso possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi abbiamo invece preferito far lavorare troppo molte persone lasciandone morire di fame altre. Perciò abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo.


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