Regole o mano libera per il funzionamento del mercato?

26 Aprile 2009
3 Commenti


Gianfranco Sabattini

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sono giunti alla loro terza fatica nel dimostrare e sostenere la necessità del ricupero del mercato ad asse portante dell’universo economico, purché liberato da tutti i “lacci e lacciuoli” di natura politica che ne hanno sino ad un recente passato condizionato il corretto funzionamento. I due autori, nel loro ultimo lavoro (La crisi. Può la politica salvare il mondo?, 2008), traendo spunto dal fatto che di fronte alla crisi finanziaria che ha travolto complessivamente quasi tutta l’economia mondiale siano subito emerse analisi e proposte semplicistiche nel presupposto che il capitalismo sia finito per cui sia consequenziale un ritorno dello stato per guidare l’economia, imbrigliare la finanza e frenare la globalizzazione, respingono senza possibilità di appello il refrain della supposta superiorità della politica sull’economia, affermando che la “politica ha il diritto ed il dovere di fissare le regole, ma come ogni croupier imparziale non deve mai sedersi al tavolo da gioco”. A differenza dei loro precedenti lavori, però, i due autori non si sono solo limitati a suggerire come ricuperare il mercato o come assicurare garanzie sociali minime a coloro che, a seguito della “liberazione del mercato”, ne dovessero subire prevalentemente le conseguenze negative. Essi ora ribadiscono che la centralità del mercato non significa che “lo stato non debba giocare alcun ruolo nell’economia”; lo stato, a fronte della libertà del mercato e dell’allargamento del processo di globalizzazione delle economie nazionali, ha compiti e doveri numerosi ed importanti, tra i quali sono “sacrosanti” quelli di soddisfare “la domanda di sicurezza economica” attraverso vari “meccanismi di assicurazione sociale” e quello di “ridurre povertà e disuguaglianza”. Ciò che, perciò, per gli autori, è indispensabile al il corretto funzionamento del libero mercato è un’efficace assicurazione contro la disoccupazione e l’adozione di misure contro ogni forma iniqua di disuguaglianza del prodotto sociale e non la protezione di imprese che non riuscissero più a stare sul marcato. Difendendo i posti di lavoro e l’iniqua distribuzione del prodotto sociale anziché i lavoratori ed i cittadini si finisce per creare problemi infinitamente più costosi. Alesina e Giavazzi considerano anche il fenomeno della globalizzazione come conseguenza della progressiva liberalizzazione del commercio internazionale sorretto da liberi mercati nazionali; essi, perciò, respingono le critiche, sia dei no-global di sinistra, secondo i quali la globalizzazione sarebbe un male per tutti i poveri del mondo, sia dei no-global di destra, secondo i quali l’internazionalizzazione delle economie nazionali avrebbero danneggiato i paesi ricchi.
Le considerazioni degli autori sulla debolezza delle critiche degli oppositori al processo di integrazione delle economie nazionali sono sicuramente valide; la povertà a livello globale è diminuita e se anche la disuguaglianza è aumentata all’interno dei paesi ricchi, le opportunità offerte dall’approfondimento e dall’allargamento della globalizzazione per la riduzione del solco che sino ad alcuni decenni addietro divideva i paesi poveri dai paesi ricchi sono enormemente aumentate. Ciò che, però, manca a livello internazionale è una regolazione statuale che gli autori giudicano “sacrosanta” all’interno di ogni singolo sistema economico, mentre non fanno alcun riferimento alla necessità di assicurarla, secondo le stesse modalità, anche a livello internazionale, attraverso l’azione di un “governo mondiale” in luogo della molteplicità delle istituzioni regolatrici oggi esistenti, all’interno delle quali il potere decisionale non sempre risulta equamente distribuito. Conseguentemente, il disegno degli autori di ricuperare al centro dell’universo economico la centralità del mercato a tutti i livelli, occorrerà aprirlo all’urgenza di garantire sicurezza economica, eliminazione della povertà e riduzione della disuguaglianza, così come essi riconoscono debba avvenire a livello di ogni singolo sistema economico, a tutti gli stati coinvolti dalla globalizzazione. A tal fine, occorrerà però una qualche forma di organizzazione istituzionale che sia in grado di garantire la soluzione dei problemi ad elevata complessità quali sono quelli connessi al governo, in condizioni di stabilità e di condivisione delle relazioni, delle relazioni tra gli stati all’interno dell’economia mondiale. Queste ultime considerazioni servono solo ad indicare che la necessità di regolare le relazioni tra gli stati in presenza dell’internazionalizzazione delle economie nazionali non vuole significare che la costituzione di un governo mondiale debba essere subordinata al vincolo del “tutto-o-nulla”, cioè alla necessità che il governo sia costituito istantaneamente, pena il ricorso all’introduzione di freni protezionistici al processo di globalizzazione in atto; vuole, invece significare la necessità che un approccio realistico al ricupero della centralità della libertà del mercato per garantire il corretto funzionamento delle istituzioni economiche non possa limitarsi ad indicare l’urgenza di un impegno regolatore dello stato all’interno dei singoli sistemi economici e tacere sull’urgenza che un identico impegno regolatorio, da realizzarsi in modo progressivo nel tempo attraverso istituzioni della stessa natura di quelle operanti all’interno degli stati nazionali, occorre assicurarlo anche a livello mondiale.

3 commenti

  • 1 Antonello Murgia
    27 Aprile 2009 - 13:28

    Il 12 dicembre scorso proposì l’inserimento, fra i documenti di questo sito, dell’articolo di C. Clericetti dal titolo “Un fallimento liberista” apparso in quello stesso giorno su “La Repubblica”. Ne ripropongo oggi la lettura perché, se non ho capito male, il prof. Sabattini mi sembra favorevole a soluzioni che ormai anche la patria del liberismo sta sottoponendo a pesanti critiche. Non che la teoria economica liberale non abbia una sua ratio: il mercato, lasciato libero, spesso riequilibra, con il piccolo effetto collaterale di lasciare ogni volta dietro di sé una scia di morte. E se questa volta sta pagando la crisi anche qualche quadro intermedio/superiore, i più deboli e meno responsabili hanno sempre pagato un tributo altissimo. Ma l’articolo di Clericetti chiarisce che la ricetta liberale non è solo eticamente riprovevole: essa è anche economicamente svantaggiosa. Il modello neoliberista americano, esemplare nella sua negatività avendo spinto alle estreme conseguenze la libertà del mercato, è crollato perché ha caricato sulle imprese ciò (previdenza e assistenza) che la sua teoria rifiutava di caricare sulla fiscalità generale (che nel frattempo era stata sottoposta ad una robusta cura dimagrante con il taglio delle aliquote).
    Proporre oggi di lasciare al pubblico un compito solo regolamentatore, come fanno gli autori del lavoro recensito e, mi sembra di capire, lo stesso prof. Sabattini, mi sembra profondamente sbagliato, soprattutto in alcuni settori. Perché l’assistenza sanitaria negli USA (prevalentemente privata), al di là delle serie di telefilms promozionali che Hollywood ha periodicamente sfornato, ha un altissimo rapporto costi/benefici, non solo per i costi altissimi, ma anche per la qualità scadente (un ritratto fedele l’ha fornito Il film Sicko di Michael Moore). Mentre i Paesi a sanità prevalentemente pubblica come il nostro, hanno costi nettamente inferiori e qualità nettamente superiore: cosa che purtroppo non molti sanno, perché un’informazione spesso interessata distorce i dati. E gli imprenditori privati della sanità (purtroppo non solo quelli che fanno riferimento al centro-destra) conducono dai primi anni ‘90 una campagna per applicare anche in Italia quel modello fallimentare che, è evidente, a qualcuno giova. L’ultimo grande attacco nella materia è quello del c.d. “libro verde” del ministro Sacconi, su cui non mi soffermo per non farla troppo lunga. Ciò che mi preme sottolineare è che, senza voler tornare a teorie veteromarxiste, ci sono settori dell’economia nei quali la gestione pubblica diretta non solo è legittima, ma doverosa se si vuole evitare che la fruibilità di diritti fondamentali sia subordinata agli interessi di pochi. Così è non solo per la salute, ma anche per i c.d. “beni comuni”, come l’acqua, l’aria, etc. L’acqua è un bene fondamentale perché necessario per la vita e, in quanto tale, incomprimibile: cioè, il suo fabbisogno pro capite non può scendere al di sotto di un certo limite. I cittadini devono sapere che lasciarne la gestione ai privati (come in una certa misura sta accadendo anche da noi), finirebbe per riprodurre i guasti (alti costi e bassa qualità) descritti per la sanità americana

  • 2 Gaibfranco Sabattini
    29 Aprile 2009 - 20:29

    29.4.2009

    In un commento ad una mia recensione del libro “La crisi. Può la politica salvare il mondo?” di Alesina-Giavazzi, Antonello Murgia rileva che la lettura della mia recensione l’ha indotto a pensare che, per il ricupero delle funzionalità del mercato, liberato da tutti i “lacci e lacciuoli” possibili ed immaginabili, io proponga “soluzioni che ormai anche la patria (quale?) del liberismo sta sottoponendo a pesanti critiche” e, nel contempo, manchi di tener presente che, nel mondo comtemporaneo, “ci sono settori dell’economia nei quali la gestione pubblica diretta non solo è legittima, ma è anche doverosa se si vuole evitare che la fruibilità di diritti fondamentali sia subordinata agli interessi di pochi”. A parte i giudizi di valore, l’impressione che la mia recensione ha trasmesso mi sembra infondata. Pensare che uno, come il sottoscritto, che ha insegnato e studiato Politica economica per tanti anni, non sappia che, tecnicamente, alcuni settori possono essere gestiti direttamente solo dallo Stato, assumerebbe il significato di una bocciatura all’esame di Istituzioni di economia. Caro Murgia, la mia recensione esprime ben altre preoccupazioni; se non sono riuscito ad esprimermi compiutamente vorrà dire che cercherò di essere ancora più preciso nei prossimi interventi.

  • 3 Antonello Murgia
    1 Maggio 2009 - 16:52

    Caro Prof. Sabattini,
    la mia non era una critica tecnica, ma politica. Entrambe le posizioni, liberale/liberista e democratica/socialista hanno per me una loro validità astratta. Le differenzia il punto di vista: la prima guarda il mondo con gli occhiali dell’imprenditore, la seconda con gli occhiali della collettività. Le vicende economiche dell’ultimo anno negli USA per me indicano che gli occhiali della collettività sono più efficienti di quelli dell’imprenditore. Liberissimo chi la pensa diversamente di sostenere altro. Per fare solo un altro esempio, negli anni ‘80 la Tatcher ha condotto con grandi capacità una battaglia vittoriosa contro i minatori ed i loro sindacati. Senza avere la pretesa di mettermi sullo stesso piano della Lady di ferro, rivendico il diritto di criticare scelte che ritengo dolorose per la collettività e sulle quali sono oggi ancora più convinto di ieri

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