Perché la transizione dalla dittatura alla democrazia?

17 Maggio 2009
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Gianfranco Sabattini

Secondo due affermati economisti, Daron Acemoglu e James A. Robinson, il primo professore al Massachussetts Institute of Technology ed il secondo professore alla Harvard University, sia i cultori della scienza economica che i cultori della scienza della politica riconoscono tutti l’importanza delle istituzioni politiche nella determinazione della performance del sistema economico, sebbene sia scarsa l’attenzione solitamente riservata a ciò che determina la loro evoluzione. A tale deficit, i due economisti hanno inteso di recente di rimediare con una ponderosa monografia (Economic origins of dictatorship and democracy) nella quale tentano di dare una risposta al perché alcuni Paesi sono retti da istituzioni democratiche, mentre altri sono retti da istituzioni non rappresentative. La teoria di Acemoglu e di Robinson rinviene la causa del passaggio da istituzioni non democratiche ad istituzioni democratiche nel ruolo svolto dalla contrapposizione tra le forze sociali che “premono” per conseguire una ridistribuzione del prodotto sociale e le forze sociali che a tale risdistribuzione si oppongono. In questa dicotomica distinzione tra forze sociali contrapposte, la non-democrazia è intesa come situazione di ineguaglianza politica in cui le élite sociali (i ricchi) sono i titolari del potere politico de jure esercitato a loro vantaggio nei confronti dei gruppi sociali subordinati (i poveri). Tuttavia, osservano Acemoglu e Robinson, la titolarità de jure del potere politico non implica necessariamente anche la sua titolarità de facto. Ciò significa che i poveri, soprattutto nei periodi di crisi economica, possono pretendere una maggiore equità distributiva minacciando (con rivoluzioni, scioperi ecc.) la stabilità istituzionale. In conseguenza di ciò, le élite possono trovare conveniente “muovere” verso istituzioni democratiche piuttosto che “conservarsi” all’interno di istituzioni non-democratiche. Tutto ciò, secondo Acemoglu e Robinson, consente di poter individuare una empirica correlazione tra un’iniqua distribuzione del prodotto sociale e una transizione istituzionale verso la democrazia.
La teoria di Acemoglu e Robinson presta il fianco ad alcune considerazioni critiche. Innanzitutto, il tentativo di spiegare la transizione istituzionale in funzione dei cambiamenti che possono intervenire nell’ineguale distribuzione del prodotto sociale è fortemente riduttivo, in considerazione del fatto che l’ineguaglianza distributiva, per quanto importante, è solo uno delle cause che possono concorrere all’attivazione del processo di democratizzazione di un sistema sociale. In secondo luogo, fondare la spiegazione del processo di democratizzazione delle istituzioni politiche sugli esiti della contrapposizione di due soli “attori collettivi” (élite e poveri), ignorando la eterogeneità della loro composizione soggettiva, significa assumere, a livello di ognuno degli attori, il coordinamento dei comportamenti delle loro singole componenti come un dato, mentre in realtà esso deve essere spiegato. In terzo luogo, la logica contrappositiva dei due unici soggetti collettivi considerati può assumere significato solo all’interno di una struttura democratica delle istituzioni politiche, per cui la teoria di Acemoglu e Robinson, più che spiegare la transizione delle istituzioni politiche dalla dittatura alla democrazia, tutt’al più può spiegare la dinamica evolutiva delle istituzioni politiche all’interno di un sistema sociale che è già pervenuto alla democrazia. All’interno di un sistema sociale non democratico è improponibile l’ipotesi che il gruppo subalterno (i poveri) possano avere un qualche “potere negoziale” nei confronti del gruppo dominante (i ricchi). Infine, ma non ultima, come l’esperienza storica evidenzia (c.d. socialismo reale), una situazione di vantaggio dei poveri, o di chi “sta peggio”, possono risultare sempre compatibili con il persistere di istituzioni non democratiche.

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