Gramsci a Torino

11 Agosto 2023
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 Andrea Pubusa

Quando Nino sta per finire il liceo non ha una prospettiva rosea. Ha frequentato penosamente il Dettori sempre con lo stesso vestito e soffrendo perfino la fame, saltando il pranzo per procurarsi qualche libro. Ora l’aspetto economico diventa piu’ gravoso. ÒIn questa situazione la scelta piu’ ragionevole era fare come Nannaro. Trovarsi un impiego. Ma il giovane a tutto pensava fuorche’ a mollare gli studi e il suo proposito di cambiare la societa’. E voi lo immaginate Gramsci impiegato al catasto per tutta la vita? No, quel cervello aveva ancora molto da apprendere e ancor piu’ da dare. E ne era ben consapevole.
Come spesso accade, in questi casi senza via d’uscita, intervenne la prov
videnza. Per gli studenti delle ex province del Regno di Sardegna il Collegio Carlo Alberto assegnava delle borse di studio ai maturati piu’ meritevoli per frequentare l’Universita’ di Torino.  Gramsci, che si era brillantemente maturato, non aveva alternative. Doveva partecipare alla selezione e superarla. Doveva vincere una delle 39 borse messe a concorso. L’impresa mostro’ subito le sue criticita’ non certo dal punto di vista della  preparazione di Nino, ma per le solite difficolta’ economiche. A partire dalle spese di viaggio e di soggiorno a Torino per la selezione. La Fondazione albertina pagava il viaggio via terra, ma non la traversata del mare. E poi assegnava 15 lire al giorno per la permanenza nel capoluogo piemontese. Sennonche’ la celebrazione del cinquantenario dell’Unita’ d’Italia aveva attrato molti visitatori, facendo lievitare i costi delle pensioni e delle trattorie. Morale della favola: Nino aveva i soldi per soggiornare, ma non per mangiare. Insomma, per il giovane lo spettro della fame si riaffacciava prima ancora dell’iscrizione all’Universita’. Inutile dire che Gramsci vinse la borsa, ma la prospettiva non era promettente. Gli furono assegnate 70 lire al mese, un buon gruzzolo per Ghilarza, ma poco per  Torino, e lui a Torino doveva vivere. E cosi’ fece al padre una richiesta di aiuto sulĺa base di un semplice resoconto. 25 lire la stanza e ne avanzano 45, meno 5 per la pulizia della biancheria e siamo a 40.  Carta, occorrente per scrivere, luce per la stanza  lucido per le scarpe e simili costano  40 lire. Un latte 10 centesimi e un panino 60. Nella piu’ modesta trattoria un pasto parco 2 lire. E cosi’ al padre, incredulo per il costo della vita a Torino, Gramsci chiede una integrazione. Prosegue anche il sostegno di Nannaro, ma il giovane universitario, come ai tempi del liceo a Cagliari, continua a fare la fame.  La debolezza e la solitudine fanno il resto.  Nino e’ sfinito, ha un grave esaurimento nervoso, e’ assalito dalla paura degli esami, se non li supera, perde la borsa e addio universita’. Ha gli incubi, sogna un grande ragno che gli succhia il cervello, come da bambino ha visto fare ai ragni con le mosche finite nella loro tela.
Nei primi tempi Nino fa cio’ che fan tutti quando giungono in un ambiente nuovo e sconosciuto, annusano l’aria, cercano di orientarsi. I primi referenti sono i professori. Si cerca di individuare i migliori, i piu’ stimolanti. A Gramsci, fra l’altro fin da liceo non piace l’erudizione fine a se stessa, per lui la cultura o e’ mirata alla conoscenza e al cambiamento della realta’ o non e’. Incontra una vecchia conoscenza del Dettori, il prof. Umberto Cosmo, gia’ socialista fin dai tempi di Cagliari e con lui il rappporto  cordiale e’ naturale, c’è un allontanamento al tempo in cui Cosmo passa a posizioni più vicine ai liberali e critica l’Ordine nuovo e il vecchio allievo, senza timori reverennziale, gli risponde duramente per le rime. Ma poi ci sarà una commovente rapacificazione nel 1922 in un affettuosisimo incontro presso l’ambasciata di Berlino, Gramsci quale esponente della Internazionale e Cosmo come segretario dell’Ambasciata, retta da Frassati.
Conosce anche il prof. di Glotologia Matteo Bartoli, che ha studiato e scritto sulla lingua sarda. E lega subito. Il docente capisce di avere davanti un allievo non comune che parla sardo alla perfezione e lo studia con passione. Lo punta. Lo investe di ricerche che gli conferiscono un ruolo non di scemplice discente, ma lo elevano al ruolo di collaboratore, forse pensa a lui come un possibile assistente.
Ma in questo ambiente, che pare ideale per il giovane venuto da Ghilarza col sogno della laurea, sorge un primo problema, non secondario per uno come lui. Gramsci è critico nei confronti della cultura ufficiale. Ha una concezione diversa e originale di cultura.
Nell’articolo “Socialismo e cultura”, pubblicato su Il Grido del popolo il 29 gennaio 1916, scrivera’ «Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri (…).
La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. (…)
Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura.
Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.
Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere».
Il giovane Gramsci all’università non guarda solo ai professori. Come accade naturalmente a tutti i giovani, annusa anche i suoi compagni di viaggio, e scopre che ce n’è più d’uno con le sue stesse propensioni ideali e grande intelligenza. Ce n’è uno, Angelo Tasca, figlio di un sindacalista della Fiat,che è già socialista e attivista. C’è Togliatti, che come lui viene dalla Sardegna, perché il padre lavorava e risiedeva a Sassari, ed aveva vinto con lui la borsa di Studio del Collegio Carlo Alberto. Arrivò poi un personaggio non comunre, Umberto Terracini, ed altri. La compagnia non era niente male e Gramsci si vide aprire una pospettiva nell’impegno politico, ch’era la sua grande passione insieme allo studio, perché la cultura doveva servire alla trasformazione della società, all’elevamento del proletariato in funzione di una società più giusta ed eguale.
Sorse dunque un dilemma di non poco conto per un giovane in generale e per uno come lui. Proseguire l’università o riversare il suo sforzo culturale in una prospettiva politica? Ora per Gramsci l’università presentò subito due criticità, una economica, l’altra culturale per la sua diversa concezione della cultura - come già detto - rispetto ai canoni imperanti. La situazione economica lo costrinse ad una vita grama e all’angoscia di non poter ottenere il rinnovo della borsa di studio. Di qui la sua grave crisi psicofisica, che gli impediva perfino di leggere, parlare e scrivere.
L’impegno politico gli era più congegnale perché da un lato gli poteva offrire 
una condizione economica modesta, ma senza le angosce fino ad allora patite, gli consentiva di studiare per cambiare il mondo, quindi in sintonia con la sua concezione di culture, ed in terzo luogo lo inseriva in un gruppo di giovani animati dalle sue stesse aspirazioni, togliendolo dall’isolamento in cui aveva vissuto il primo periodo torinese. Tutte ragioni verso un abbandono sofferto, ma ineluttabile dell’università. Dà il suo ultimo esame nell’aprile 1915: e addio laurea. Già negli ultimi mesi del 1913,  come si è detto  - ha avuto i primi contatti col movimento socialista torinese, in particolare coi giovani del «Fascio centrale» di Tasca. Cosi’, fin dal 1914 si avvia al lavoro di intellettuale militante: ai primi di dicembre del ’15, entrando a far parte della redazione torinese dell’«Avanti!», inaugura un’intensa attività giornalistica come editorialista politico, polemista civile e cronista teatrale, che durerà fino a tutto dicembre 1920.
Dunque, manco a dirlo, Gramsci scelse la seconda strada e si diede al giornalismo, sua altra grande passione fin dal liceo Dettori, tant’è che il suo professore Raffa Garzia, ch’era anche direttore de L’Unione sarda, intuendone le doti giornalistiche, lo nominò corrispondente da Aidomaggiore, pesino non lontano da Ghliarza, ed egli pordusse come suo primo articolo quel gioiellino che abbiamo già pubblicato. Gramsci esordì nel giornalismo torinese il 13 novembre del 1915 su Il Grido del Popolo. Il suo articolo aveva ad oggetto un incontro fra delegati dei partiti socialisti europei avvenuto in Svizzera. Successivamente, la sua attività di giornalista divenne professionale, e dai primi mesi del 1916 trascorreva gran le sue giornate all’ultimo piano nel palazzo dell’Alleanza Cooperativa Torinese dove, in tre stanze, si trovavano la sezione giovanile del Partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell’Avanti! con la rubrica Sotto la Mole che si occupava della cronaca torinese. La redazione de l’Avanti! era formata dall’impiegato alle ferrovie Ottavio Pastore, l’eccentrico ex cameriere Leo Galetto e  lui, Antonio Gramsci. Tre in tutto, pochini. Il direttore era Giuseppe Bianchi, ex tipografo proveniente da Il Secolo Nuovo di Venezia. Bianchi diresse anche Il Grido del Popolo fino al 1º maggio del 1916 quando partì per il fronte.
Con una redazione così ristretta Gramsci pubblicò di tutto, assecondando le sue propensioni manifestate fin dal periodo cagliaritano. Non c’erano solo i commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, la polemica politica, c’erano anche le note di costume,  le recensioni letterarie e la critica teatrale. In particolare si occupò deli un’altra sua grande passione, il teatro, legato alla vita sociale. La critica teatrale non era rivolta a una élite, ma era uno degli strumenti di crescita e maturazione culturale delle classi subalterne e del proletariato,. Gramsci fu pertanto un “critico militante”, avendo come riferimento De Sanctis piuttosto che Benedetto Croce secondo cui il teatro era una “sottospecie di oratoria di intrattenimento”, cui tendeva anche l’industria dello spettacolo, con rappresentazioni di opere di carattere leggero e spesso, peggio, frivolo come l’operetta e il varietà, a discapito di commedie e drammi con contenuto sociale.
Mentre Gramsci era in queste facende affacendato, nel febbraio-marzo del 1917, in Russia succedevano cose eccezionali, ben più intressanti della Rivoluzione del 1905. Gramsci si butta a capofitto in quelle vicende, cercando di sapere, di capire e di far capire nella prospettiva di un salto rovoluzionario anche in Italia. Ma questa è un’altra storia.

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