Ammirando, ricordando, pensando a bambini durante questo mio viaggio in Toscana

24 Ottobre 2023
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Mario Sciolla

Il mio nuovo viaggio in Toscana ha avuto quel marchio, già prima dell’imbarco.
Durante la lunga attesa a Olbia, andando avanti e indietro tra le auto - molte con finestrini aperti, per ricambiare l’aria degli abitacoli - vedo e rivedo una giovane donna che intrattiene il suo bimbo con parole, scherzi, moine. Il piccolo reagisce con risate divertite, tendendo le braccine alla mamma, da cui attende una nuova divertente fase di gioco. Alla quinta - sesta volta in cui assisto alla scena, scatta l’impulso e mi avvicino per un attimo: «Signora, formate un magnifico quadro». Mi ringrazia, prima che io mi allontani, e riprende i vezzi col suo bimbo.
Imbarco. Notte in cabina. Risveglio. Colazione nella lounge. In tanti (sardi, altri italiani, stranieri) attendiamo gli annunci per l’avvio delle operazioni di sbarco. Qualche divano oltre il mio, una giovane signora carezza un bimbo e ne rassetta la cuffia e il giacchino. Il piccolo si ancora alle spalle della donna, tende lo sguardo e lo volge curioso, quasi avido, al mondo circostante, alle cose e alle persone intorno a lui. Non reggo all’impulso e mi avvicino. Mi scappa una domanda banale:
- E’ maschio o femmina?
- A boy
- He’s a jewel; a precious jewel. Congratulations!
Mentre faccio per allontanarmi, mi ringraziano all’unisono la donna («Thank you») e il giovane marito («Grazie»).
Già nell’attesa ai garage, prima che inizi il flusso di auto in uscita, iniziano i primi pensieri che poi diventano insistenti. Prima reazione: i bimbi, in qualsiasi situazione e condizione, suscitano sempre negli adulti le stesse emozioni. O forse tendo a generalizzare quanto avviene per me. Mi è tornata alla mente la giovane madre che vidi in Addis Abeba nei miei primi mesi in Etiopia. Non avevo ancora una mia auto e mi spostavo con i cosiddetti “taxi” collettivi (sgangherate carcasse di vecchie auto italiane, scrostate e ripitturate col pennello). Ci spostavamo da Arat Kilo verso Kazanchis. Di lì avrei percorso a piedi la strada per raggiungere la mia abitazione, ad Aware. Viaggiavamo, seduti nel “taxi”, in cinque o sei persone. Solo chi ne ha avuto esperienza conosce le modalità di quei viaggi in “taxi”: grezze panche fissate ai lati dell’auto, che ospitano file di passeggeri seduti gli uni di fronte agli altri. Notando il mio sguardo curioso verso il suo bimbo, la madre mi rivolge un sorriso che mi pare di grato ringraziamento. Di tanto in tanto continua a sorridermi quando gli dà il seno per la poppata. Si risvegliano altri ricordi di quella terra, di altri bimbi a braccio o a fianco delle madri.
La reazione successiva è uragano: mi travolgono, mi opprimono i pensieri delle centinaia e centinaia di bambini uccisi a Gaza. Non funziona neppure la rimozione, che tante volte automaticamente distoglie da pensieri troppo gravi da reggere. La mente lavora da sé, istintivamente, e immagina gli strazi e la disperazione, la ribellione istintiva che poco vale a fronte della potenza distruttrice. Così come poco vale la rabbia mia o altrui per un mondo informato da potentati che insistono quasi esclusivamente sul pur esecrando attacco di Hamas e sulla vicenda degli ostaggi, solo sfiorando per rapidi cenni questa immane catastrofe umanitaria.
E il rovello continua, nell’amara constatazione dell’inutilità dei miei pensieri.

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