Il leader e il capobanda

29 Giugno 2010
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Carlo Dore jr.

Quando le tracce dei temi assegnati agli studenti impegnati negli esami di maturità sono state diffuse dai vari mezzi di informazione, un’improvvisa ondata di stupore e sconcerto ha pervaso l’animo di tutti gli intellettuali democratici del Paese.
La proposta di elaborato mediante cui si chiedeva ai candidati di esaminare il “rapporto tra giovani e politica nel pensiero dei grandi leader” partendo da una frase pronunciata da Mussolini (la cui posizione veniva artificiosamente equiparata a quella di Togliatti, di Moro e perfino di Giovanni Paolo II) all’indomani del delitto Matteotti non costituisce soltanto l’ennesimo prodotto del goffo revisionismo in salsa berlusconiana, già manifestatosi nella parabola del “dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza nelle località di confine”.
No, quel tema rappresenta qualcosa di peggio: rappresenta la definitiva conferma della volontà di attribuire la qualifica di leader al capo di una forza politica che – oltre a descrivere con oratoria marziale le imprese criminali di militi e gerarchi come la sana estrinsecazione del vitalismo proprio della migliore gioventù italica - si assumeva pubblicamente la responsabilità di un omicidio, certificando la totale immersione dell’Italia nella palude di un regime fatto di fuoco e camice nere, discorsi da operetta e sistematiche rappresaglie, sangue e olio di ricino. Rappresenta - come lucidamente ha osservato Adriano Prosperi nel suo articolo pubblicato su “La Repubblica” dello scorso giovedì - l’estremo tentativo di legittimazione della leadership di un capobanda.
Forse, anche nell’epoca dell’anti-ideologismo e del superamento dei partiti tradizionali, della rinnovata esaltazione dell’Uomo solo al comando e della trasformazione della militanza politica in tifo da stadio, sarebbe stato preferibile che i funzionari del ministro Gelmini avessero chiesto agli studenti di riflettere su altre parole che la storia italiana propone, di esporre il loro pensiero su un altro discorso: un discorso che si è elevato al di sopra delle grida delle squadre di azione, dei lamenti di un uomo morente, delle teorie volte a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti per continuare a trasmettere lo straordinario messaggio di libertà in esso contenuto. Il discorso di un leader vero che riuscì, contrapponendo ancora una volta la forza della ragione all’ottusa pratica delle ragioni della forza, a disvelare in tutta la sua mostruosa enormità il castello di violenze, bugie, e sopraffazioni su cui si fondava l’autorità del Duce.
Quel leader si chiamava Giacomo Matteotti, e la sua storia è proprio la storia di un discorso. Un discorso che il deputato socialista chiese di pronunciare “né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente”, nel vano tentativo di riscattare, seppur per pochi istanti, la dignità di una Camera dei deputati già troppo simile ad un bivacco di manipoli. Un discorso mediante il quale, oltre alle molteplici anomalie che caratterizzavano il funzionamento di una legge elettorale liberticida, venivano denunciate le sistematiche intimidazioni, le brutali ritorsioni e financo gli omicidi a sangue freddo che avevano caratterizzato le elezioni del 1924, mentre la parola “regime” iniziava a rimbombare, sinistra ed inquietante, tra i banchi delle forze di opposizione.
Un discorso la cui essenza è concentrata in poche e semplici battute, quasi gridate, con rabbia e disperazione, dal leader in faccia al Capobanda: «Noi deploriamo che solo il nostro popolo nel Mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza».
Popolo, libertà, dignità. Queste erano le parole di Giacomo Matteotti, le parole del leader dalla fine era già scritta: il bivacco di manipoli avrebbe ben presto fatto valere la sua legge, le ragioni della forza avrebbero soffocato la forza della ragione nel sangue di un uomo visto come una minaccia da un regime debole.
Chissà in quale modo uno studente prossimo alla maturità avrebbe interpretato quelle parole. Forse con rabbia, forse con una lacrima, forse con un sorriso, forse con un applauso. La rabbia, le lacrime, i sorrisi e gli applausi che i democratici di tutta Italia da quasi un secolo tributano al meraviglioso, indelebile ricordo di Giacomo Matteotti, al ricordo del leader che per primo trovò il coraggio di rivelare ad un Paese allo sbando come, sotto il doppio petto presidenziale da cui era incorniciata la volitiva mascella del Duce, continuasse in verità a pulsare l’anima nera del Capobanda.

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