Ma la lotta di classe esiste ancora?

29 Aprile 2012
2 Commenti


Rossana Rossanda

In vista del Primo Maggio, ecco la recensione, apparsa su Il Manifesto, di un libro di Gallino che parla della lotta di classe, che - come diceva il buon Karl Marx  - non è stata inventata da lui, ma esiste anche quando - come si usa fare oggi - la si nega. Insomma, esiste… a prescindere, la si ammetta o non.


La lotta di classe non è finita, così come non sono scomparse le classi sociali. L’ultimo libro di Luciano Gallino per Laterza sgombra il campo da molte erronee convinzioni che hanno orientato le politiche delle sinistre. Ma è anche un invito a guardare con lucidità la crisi del pensiero critico, che non può invece essere aggirata proponendo soluzioni che non scalfiscono la religione del libero mercato
Con un titolo provocatorio, parole che le ex sinistre italiane non hanno il coraggio di pronunciare, Luciano Gallino ha chiamato il suo ultimo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, pp. 212, euro 18).
Quante volte sentiamo dire «la lotta di classe» non c’è più? Non esistono più le classi sociali? Non ci sono più una destra e una sinistra? Dov’è oggi l’operaio? A che servono i sindacati? Come si può pretendere oggi un posto fisso per la vita? E poi, che noia il posto fisso!». Eccetera. E da queste asseverazioni parte Gallino nel dare al suo lavoro la forma di un’ampia intervista alla sociologa Paola Borgna, definendole come sciocchezze, ideologia, falsa coscienza della società. Mai infatti il capitale ha messo al lavoro tanti milioni di persone come oggi con l’estensione dell’economia mondializzata. Mai come oggi l’innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il lavoro degli uomini su ogni segmento del produre, aumentandone la produttività, non già per liberare il lavoratore dalla fatica ma per ridurne il costo al produttore. Mai la tecnologia della comunicazione gli ha permesso come ora di conoscere in tempo reale dove si trovano le forze di lavoro il cui costo è più basso. Mai come ora, organizzate in megafusioni e saltando da investimenti in produzione a quelli sulla finanza e viceversa, i mezzi di cui dispone gli permettono di spostarsi dove la forza di lavoro costa meno, lasciando a terra la manodopera di cui aveva bisogno per esempio in Europa, dove i lavoratori avevano conquistato da un secolo salari e diritti maggiori.
Si è allargato quindi, in quantità e qualità, il conflitto di interessi fra capitale e lavoro, i capitali concorrono (ma è più elegante dire «competono») nel ridurne il costo, mentre i vecchi e nuovi lavoratori, non ancora o non più organizzati, si fanno la guerra, concorrendo gli uni contro gli altri più o meno consapevolmente al ribasso, per conquistare un posto. Dunque le classi non solo ci sono ancora, ma l’offerta di manodopera e lo sventagliarsi delle retribuzioni, che trent’anni fa dispiegavano su scalini di circa trenta grandezze diverse (ed era già un bel salto), oggi avviene in grandezze da 1 a 300: in altre parole occorrono trecento anni di lavoro a una operia o cassiera dei supermercati per guadagnare quello che il suo direttore generale guadagna in un anno. Qualcuno ricorderà che negli anni Ottanta i padroni italiani sostenevano che il costo del lavoro era diventato una voce minima nell’insieme dei costi di bilancio, ma oggi è su di esso, sia pur calato in assoluto, che esercitano la maggiore pressione possibile. Nella lotta di classe sono cambiati l’attaccante e chi si difende; l’attaccante che, pur in inferiorità di mezzi, era il salariato oggi si difende sia dal padrone sia dallo stato, che legifera a favore del padrone - Monti ed Elsa Fornero ne sono figure da manuale. Adesso le parti sono invertite. All’attacco è il capitale e il lavoro è sotto botta.
Divisi e senza partito
Qualche anno fa, scendendo all’aeroporto di Roma, mi sorprese un grande pannello luminoso che riproduceva il famoso quadro di Pelizza da Volpedo, «Il quarto stato», dove operai e contadini, assieme a una donna con il bambino in braccio, marciano avanti senza paura, a rappresentare il proletariato emergente come figura politica, con i suoi sindacati e i suoi partiti. Soltanto che al posto delle facce affaticate e degli abiti modesti, giubba sulla spalla, c’erano una schiera di inappuntabili manager in giacca e cravatta che avanzavano sotto la scritta: «Capitalisti di tutto il mondo unitevi!»
Pareva una battuta, invece era già fatto. Mentre i proletari non solo sono arretrati, non solo non hanno più, in Italia e altrove, un partito che li rappresenta in parlamento, ma si sono divisi. Gli stessi metalmeccanici, le tute blu cui vanno le nostre simpatie e speranze, non sono collegati neanche a livello europeo, neanche quando dipendono dallo stesso padrone, e quindi sono esposti a essere battuti, su questo o quel punto, ora l’uno ora l’altro. La pressione per azzerare il contratto nazionale, l’indebolimento dell’articolo 18, l’allontanamento dell’articolo 81 della Costituzione, il moltiplicarsi degli «atipici» per dire il sempre più ampio precariato diminuisce anno per anno il peso contrattuale della forza di lavoro, specie europea, tendendo ad allinearla al modello degli Stati Uniti, a negoziato principalmente privato fra datore di lavoro e lavoratore. L’ideale del padronato è che il lavoro possa essere assunto e dimesso solo per il tempo che serve all’impresa e a alle condizioni più modeste possibile. Non ci siamo ancora del tutto, ma la tendenza è questa. Il volume di Gallino infilza una per volta, capitolo per capitolo, questa frammentazione del lavoro e della sua capacità di difesa, ribattendo alle domande di Paola Borgna, che si fa ogni tanto avvocato del diavolo cioè degli stereotipi dell’opinione dominante.
Dominio dell’economia
Con la stessa chiarezza lega le politiche di austerità alla loro natura di classe, mentre le istituzioni, il ceto politico tutto e la presidenza della Repubblica si affanna a descriverla come mera tecnica per rimettere i conti a posto, e indica nella flessibilità del lavoro il fine effettivo cui mira il padronato, che spera di mantenere a tempo indeterminato soltanto quella parte di manodopera che gli garantisce un certo know how, facendo ruotare tutto il resto nel minor tempo e con le minori garanzie possibili. Ma con questo viene meno la possibilità per il lavoratore dipendente di programmare la propria esistenza che viene meno, chiudendo il cerchio sotto il profilo della rappresentanza politica: più si dilata la distanza di reddito fra le classi più sale la sfiducia nella capacità e nella stessa volontà della sfera pubblica di fungere da compensatore o moderatore della tendenza sfavorevole alle classi subalterne. Più si è costretti a constatare che non siamo «nella stessa barca», nel senso che i più possono esserne sbattuti fuori a ogni momento, meno i partiti, specie quelli che si dicono di sinistra, appaiono credibili. Ma meno la sfera politica è credibile, più la cosiddetta «economia» diventa dominante.
Gallino, il cui penultimo libro era, se non erro, Finanzcapitalismo e delineava il contesto in cui il capitale si muove oggi, chiede dunque energicamente che i concetti vengano rimessi al loro posto, che la lotta di classe si veda nei suoi attuali protagonismi e forme, che si sono ribaltate dal 1848 a ieri l’altro, e che si rilanci una battaglia nella sua direzione originaria cominciando con il rimettere sui piedi l’immagine dei rapporti di lavoro.
Perché e come ne sia avvenuto il rovesciamento sarebbe lungo dire. Ma al di là della lucidità e crudeltà intrinseca dei detentori di capitale, che non hanno né funzioni né doveri di beneficenza né di pubblica utilità, sul mutamento di cultura avvenuto nella seconda metà del Novecento ci sarebbe molto da dire. In primo luogo sullo stato di incertezza e confusione delle organizzazioni sindacali e politiche sotto l’urto concomitante della ripresa neoliberista, da Thatcher e Reagan in poi, e della crisi verticale dei socialismi reali. Ma anche negli errori di analisi nostri, delle sinistre radicali, nel corso degli anni Settanta - incapacità di misurare esattamente il rapporto reale di forze, opponendo il precariato ai presunti «garantiti», e moltiplicando negli anni seguenti le categorie interpretative della crisi del movimento operaio invece che guardarla per quello che realmente era. Qualcosa di analogo, a mio avviso, ripetiamo oggi nel convulso bisogno di liberarci dai parametri della lotta di classe attraverso la sottrazione dei «beni comuni» alla dialettica delle classi, causa giusta ma insufficiente, o al rinvio della sussistenza della forza lavoro a un reddito di cittadinanza messo sulle spalle della finanza pubblica. Tutto utile ma tutto esterno alle vicissitudini del modo di produzione e di quella lotta di classe della quale il lavoro di Luciano Gallino non cessa di rappresentarci lo spessore e la violenza.

2 commenti

  • 1 Tonino Dessì
    1 Maggio 2012 - 22:28

    Finanzcapitalismo e La lotta di classe dopo la lotta di classe sono, a mio avviso, gli scritti più lucidi e illuminanti pubblicati in questi anni in Italia, sulle dinamiche globalizzate dell’economia e della società lette in tempo reale. Purtroppo bisogna constatare che nessuno dei soggetti politici che ancora si richiamano alla sinistra sembra far proprie le analisi, le proposte, ma nemmeno il linguaggio preciso e asciutto di Gallino (personalità tutt’altro che ascrivibile a una tendenza estremista, proveniendo puiuttosto da una cultura sinceramente quanto rigorosamente riformista). Un tema cruciale che Gallino non si si limita ad enunciare , ma che resta sullo sfondo dell’analisi, come elemento purtroppo irrisolto, è nuovamente quello che una volta avremmo chiamato “della soggettività”. Non è infattti che manchi l’evidenza di una gigantesca aggressione in atto, da parte delle componenti materiali del capitalismo finanziarizzato (meno anonime tuttavia di quanto il loro connotato giuridico transnazionale riesca a celare), nei confronti della massa planetaria di soggetti individuali e collettivi da rapinare. Perchè di rapina si tratta, ad opera di forze che non solo, come puntualizza Rossanda, non hanno nella loro genetica la beneficienza, ma che in larga e sottovalutata misura, traggono alimento da un’economia materiale sottostante di natura prettamente criminale (si pensi ai meccanismi di estrazione e di riciclaggio di enormi capitali derivanti dall’accaparramento illegale delle materie prime africane, allo sfruttamento schiavistico della manodopera minorile in Asia, alla sperimentazione clandestina di nuove tecnologie farmaceutiche, ai proventi del traffico degli stupefacenti). Ma che responsabilità etica può coltivare un capitalismo speculativo in cui tali componenti hanno un peso sempre maggiore? Il punto è però che la politica ha totalmente, in ogni campo, fatta propria l’idea -ideologia - che non competa alla politica stessa e alle istituzioni democratiche imporre regole diverse da quelle volte a favorire le dinamiche di un mercato autoregolantesi, descritto anche dalla più parte degli economisti come uno scenario ineluttabile e apparentemente asettico. Mi capita spesso di avere pensieri politicamente scorretti e uno di questi non può non sfiorare le conseguenze reali della caduta del Muro nel 1989. Non lo espliciterò, perchè so a quali conseguenze paradossali andrei incontro, nonostante sia nota la mia provenienza da un’esperienza radicalmente antistalinista. Certo è tuttavia che in assenza di una soggettività culturale e politica strutturata, nettamente impegnata nella ricerca di una radicale alternativa al capitalismo nelle forme che attualmente ha assunto, anche la testimonianza e l’appartenenza di ciascuno di noi (non si parli di militanza, perchè quella è preclusa dalle condizioni in cui sono precipitate le forze politiche di quel che resta della sinistra), resta qualcosa di sempre più flebile e disarmato.

  • 2 GianLuca
    13 Febbraio 2019 - 11:54

    Ottimo approfondimento, ancora attuale. I libri citati sono interessati e andrebbero letti.

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