La “terza via” accidentata di Theresa May

7 Febbraio 2017
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 Gianfranco Sabattini

Nei suoi discorsi, Theresa May, la premier britannica, non ha difficoltà ad ammettere che il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea abbia diviso e indebolito il Paese e, per questo motivo, nel rivolgersi alla nazione, dichiara sempre di volersi impegnare a tentare di rafforzare i legami tra i cittadini e tra le nazioni del Regno. A tale scopo, la May promette di voler lavorare nell’interesse di tutti, dichiarando che, quando negozierà il definitivo distacco dall’UE, cercherà di raggiungere un accordo tenendo conto, non degli interessi di chi ha votato per uscire dalla UE, ma di quelli dell’intero Paese. Pur non rivelando la strategia negoziale che il Governo inglese intenderà seguire nelle trattative con Bruxelles, è tuttavia diffuso il convincimento che Londra opterà per un’uscita radicale dall’UE, che potrebbe includere anche un ridimensionamento della sua presenza nel mercato unico.
Esponente della destra britannica, Thersa May intende impostare la politica del suo governo in modo, non tanto da non offrire un risarcimento degli effetti negativi della globalizzazione ai cittadini, quanto di voler approfondire le finalità sociali del sistema economico; un obiettivo, questo, che, secondo John Milibank e Adrian Pabst, professore emerito di religione, politica ed etica all’Università di Nottingham, il primo, docente di politica all’Università del Kent, il secondo, in “Theresa May: liberalismo addio” (“Aspenia” n. 75/2916), presuppone “un’economia più etica, capace di allineare gli interessi di lungo periodo delle aziende, degli azionisti e dei membri delle comunità locali”. A parere di Milibank e Pabst, l’obiettivo potrà essere raggiunto, ma il successo è legato alla possibilità di un radicale mutamento nel governo dell’economia e della società del Regno Unito.
Secondo i due docenti, la politica e l’economia degli Stati Uniti e di gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale sono state influenzate, dopo gli anni Settanta, da “due modelli politici teorici” che sono ora sulla via di una crisi irreversibile: da un lato, il liberalismo economico della destra che, dai primi anni Ottanta, ha perseguito l’obiettivo della massimizzazione dell’utilità, definita in termini di felicità individuale o di qualche forma di soddisfazione collettiva misurata dal PIL; dall’altro lato, il liberalismo socioculturale della sinistra, che a partire dagli anni Novanta si è concentrato su un ampliamento costante dei diritti e delle libertà. Si è trattato di due forme gemelle di liberalismo: quella conservatrice di Margaret Thatcher e quella socialdemocratica di Anthony Giddens e di Anthony Blair.
Si tratta di due liberalismi, a parere di Milibank e di Pabst, che secondo Theresa May “hanno potuto garantire maggiori libertà personali e qualche opportunità in più di alcuni”, ma oggi manifestano effetti antidemocratici e disgregatori della società; ciò perché l’uno e l’altro hanno servito gli scopi del monopolio del mercato globale e della burocrazia centralizzata, “collusi nel generare un aumento senza precedenti del potere e della ricchezza concentrati nelle mani di pochi”. Ora che il voto sulla Brexit ha segnato per la nazione britannica la fine di una politica caratterizzata dall’egemonia del “liberal-consensus”, il liberalismo dei governi della Thatcher, di Blair e di Cameron, non è più considerato appropriato dal Governo presieduto dalla May, volto a proiettare “i Tories verso un orizzonte post-liberale, nell’obiettivo di una maggior giustizia economica e del rafforzamento della solidarietà sociale”.
Secondo Milibank e Pabst, nei suoi discorsi pubblici, la May non manca mai di ripetere di non credere “solo nei mercati”, ma “anche nelle comunità”, e di non credere “solo nell’individualismo, ma anche nella società”. Dalle affermazioni della premier britannica, a parere di Milibank e di Pabst, emerge sicuramente un forte segnale di discontinuità rispetto alle politiche del passato; non solo quindi, rispetto alle idee di Margaret Thatcher, che pensava che la società non esistesse, o a quelle di Blair e di Giddens, convinti che la condizione di chi sta peggio potesse essere migliorata dai successi della libera iniziativa dei migliori, ma anche a quelle di David Cameron, la cui Big Society non assegnava un ruolo positivo allo Stato. La May, contrariamente ai suoi predecessori, ritiene invece che il ruolo chiave del governo debba essere “quello di coltivare quelle relazioni, quelle reti e quelle istituzioni che fanno funzionare la società”.
Quel che però colpisce di più nella politica promessa dalla May, secondo Milibank e Pabst, è “lo strappo rispetto a quarant’anni di liberalismo economico”, per cui le sue promesse di intervenire sulle differenze salariali, sulla repressione dell’evasione fiscale, soprattutto di quella imputabile alle grandi imprese, e l’impegno a sostenere la presenza dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle attività produttive, rappresentano una rottura decisiva dopo quasi “quattro decenni di fondamentalismo di mercato”.
Di fronte all’approfondirsi della globalizzazione e al prevalere della soddisfazione degli interessi individuali rispetto alla prosperità collettiva, la premier britannica intende “mettere in campo uno Stato attivo e un sistema di leggi che aiutino a plasmare un’economia al servizio della società”; ciò, perché, come è solita ribadire, non si deve “odiare” lo Stato, ma apprezzarlo per il ruolo che può svolgere, usando il potere del governo per la soddisfazione degli stati di bisogno dell’intero Paese. E’ questo il senso della decisione, ad esempio, di valorizzare i quattro principali porti del nord dell’Inghilterra, quelli di Liverpool, di Hull, di Tees Valley e di Tyne. L’iniziativa si inserisce bene nell’agenda del primo ministro britannico, che dopo la Brexit ha lanciato la proposta di attuare il programma “Northern Powerhouse”, orientato a creare nuovi posti di lavoro, ad aumentare l’import/export e a sviluppare, più in generale, l’economia delle aree del nord del Paese.
L’obiettivo della politica generale della May, quindi, sembra essere quello di eliminare, nella distribuzione del prodotto sociale, l’”effetto sgocciolamento verso il basso” (trickle down), alla cui attuazione ha teso la politica distributiva di Margaret Thatcher e, in ultima analisi, quella di Anthony Blair; in sua sostituzione, viene auspicata una nuova forma di distribuzione basata su aumenti salariali, la cui legittimazione sia fondata sul mantenimento dell’unità nazionale e sulla funzionalità di una mutua assistenza a sostegno incondizionato di coloro che versano in stato di maggior bisogno, secondo la tradizione britannica delle “Poor Laws” del passato. A rendere credibile l’approccio politico della May ai problemi della società britannica, rispetto al post-liberalismo della “Big Society” di David Cameron e a quello dello “One Nation Labour” di Jeremy Corbyn, per Milibank e Pabst, è il fatto che esso (l’approccio) mira non tanto ad “offrire un semplice risarcimento per gli effetti collaterali della globalizzazione, quanto a mettere in campo riforme fondamentali capaci di imprimere un cambiamento strutturale del mercato stesso”, allineando gli obiettivi dell’intera classe dirigente agli interessi a lungo termine della società e del sistema produttivo.
Tuttavia, Milibank e Pabst evidenziano che la politica della premier britannica potrebbe andare incontro ad alcune contraddizioni, prima fra tutte quella dovuta al fatto che, se da una parte la difesa degli interessi interni al Regno Unito comporta la necessità di regolare il mercato più di quanto potessero permettere le regole comunitarie, per un altro verso, va messa in conto l’opposizione della destra conservatrice che, favorevole alla libertà di import/export, si è espressa a favore della Brexit, solo per poter fruire di una libertà di movimento “ben più ampia di quella prevista dall’Unione Europea.
Le contraddizioni  renderanno il post-liberalismo della May nell’edizione di una nuova “terza via” alla maniera britannica, confusa come quella formulata da Giddens e attuata da Blair; anch’essa quindi fuori da ogni sua possibile connotazione socialdemocratica, per via del fatto che una delle componenti sociali alla quale la premier britannica dovrà rendere conto è parte della destra conservatrice, che si è espressa a favore della Brexit solo per poter fruire dei vantaggi di una globalizzazione affrancata dalle regole minime dell’Unione Europea; fatto, questo, che rende improbabile l’eticità con cui la May dovrebbe connotare l’attuazione della propria politica. Ella ha tra i propri “compagni di strada”, forze sociali ed economiche che, avendo interesse a conservarsi libere di agire a livello globale, non possono che considerare gli obblighi etici della politica post-liberalistica verso la società un “fardello” del tutto insopportabile.

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