Caso Regeni. Un processo senza contraddittorio?

31 Ottobre 2023
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 Andrea Pubusa

 

Corte Costituzionale, 26 ottobre 2023, sentenza n. 192
Presidente Sciarra, Relatore Petitti

Segnaliamo, con riferimento al caso Regeni, il deposito della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.

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Pubblichiamo, di seguito, il comunicato della Corte Costituzionale:

Processo Regeni: per le imputazioni di tortura statale la disciplina dell’assenza non può tradursi in una immunità “de facto”
Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, «è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana». Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come «il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità».
Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 192 (redattore Stefano Petitti), depositata oggi e anticipata con il comunicato stampa del 27 settembre, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
La Corte ha osservato che la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall’impossibilità di notificare personalmente all’imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, «non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale». Essa infatti «si risolve nella creazione di un’immunità de facto», che offende i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, primo comma, Cost.).
La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo può essere d’altronde soddisfatta senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell’imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell’imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo.
Rimettendo al giudice comune l’attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all’imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia «rispettosa del principio del giusto processo».
Roma, 26 ottobre 2023

Alcune osservazioni alla decisione.

La sentenza richiamata introduce una novità che non può non essere rilevata. Una novità che incide sul principio del contraddittorio, previsto dalla nostra Costituzione e coessenziale al processo. Un principio di civiltà. Non ci può essere un processo senza contraddittorio. La prova non può essere validamente acquisita senza il contraddittorio fra le parti. Queste devono essere informate sullo svolgimento della procedura e messe in condizione di partecipare e difendersi. Quindi, se manca un congruo preavviso, il processo non può svolgersi. E se si svolgesse gli atti e la sentenza sarebbero nulli.
Ora la Corte costituzionale introduce un’eccezione.  Si vuole scongiurare la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, nel caso di impossibilità di notificare personalmente all’imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza. Essa infatti, secondo la Consulta, «si risolve nella creazione di un’immunità de facto», che offende i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, primo comma, Cost.).
D’accordo, ma la Corte con questa eccezione deroga ad un principio coessenziale al processo quale è quello del contraddittorio. Un vulnus grave, seppure fondato - come nel caso Regeni - su comprensibili esigenze di giustizia sostanziale.

Se ne rende conto la Consulta stessa che trova un rimedio nel diritto dell’imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo. Ma in questo modo si sana il vulnus originario di un processo senza contraddittorio? Di una condanna senza valido contraddittorio? Il rimedio è peggiore o pari al male? Non si apre così la strada a pericolosi ritorni indietro? (A.P.)


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