La secessione del Nord preparata da Lega e PD, può essere impedita solo da un’estensione della revisione a tutte le regioni

10 Marzo 2019
4 Commenti


Alfiero Grandi, con premessa di Andrea Pubusa

Pubblichiamo volentieri questo articolo di Alfiero Grandi - vice Presidente Coord. per la democrazia costituzionale - rilevando tuttavia che la secessione del Nord assume caratteri preoccupanti perché la proposta di revisione dei poteri regionali è limitata a tre regioni, non tanto perché eversiva della lettera della Costituzione, giacché s’inquadra nella previsione dell’art. 116, comma 3, introdotto - come anche Grandi ricorda - proprio dal centrosinistra nel 2001. Ma il fatto politico più grave è del governo Gentiloni che, col sottosegretario Bressa (PD Emilia Romagna) un mese prima delle elezioni ha firmato una cambiale ai presidenti di Lombardia e Veneto inserendo, con destrezza, nel pacchetto la sua Regione. Gli scassi, dunque, non sono del M5S e neanche dei Salvini, ma dell’intesa lego-piddina del Nord. Come non vedere, in questo contesto, anche la convergenza Chiamparino-Salvini anti Appendino e M5S sulla TAV? Anche qui con una proposta a dir poco anticostituzionale perché si minaccia d’indire un referendum regionale per contrastare una eventuale decisione governo contraria al tunnel per Lione, materia questa di rilievo indubbiamente nazionale e prevlusa, quindi, alle consultazioni locali. Ricordo che alla fine degli anni ‘90 la Corte costituzionale sancì il rilievo nazionale del referendum indetto in sede regionale per l’eliminazione della base USA da S. Stefano La Maddalena.
Purtroppo, la posizione di Grandi (e di altri) è debole politicamente, perché ha contro non solo la Lega, ma anche il PD del Nord. Peraltro, nel merito, poiché l’art. 116, comma 3, è testo costituzionale, la secessione può essere scongiurata solo a condizione di trarre spunto dalla richiesta delle tre regioni del Nord per una rivisitazione globale della autonomia regionale ordinaria e speciale. Questo nuovo cantiere regionale generale eliminerebbe lo squilibrio. Insomma, occorre incoraggiare Di Maio a stracciare la cambiale firmata da Bressa per conto del governo Gentiloni e aprire la partita a tutte le regioni. (A.P.)

Salvini ha incontrato i (soli) Presidenti di Lombardia e Veneto a cui ha promesso tuoni e fulmini per fare passare le loro richieste di autonomia differenziata. Per Bonaccini dell’Emilia Romagna dovrebbe essere l’occasione per riflettere: hanno dimenticato di invitarlo, infatti l’autonomia differenziata così come è stata posta dall’inizio ha una evidente targa della Lega, per di più quella Nord non quella che oggi Salvini vorrebbe imporre. Insomma un vero e proprio tratto distintivo.
Troppi sembrano dimenticare che l’obiettivo di Salvini è affermare un partito di livello nazionale per guadagnare voti in Italia e in particolare al sud, per di più tentando di intercettare il voto dei delusi dal M5Stelle. E’ evidente che tirare la corda della secessione dei ricchi entra in collisione con questo tentativo di espandersi nel resto dell’Italia. Per questo obiettivo la Lega ora ha cambiato il suo nome originario che era Lega nord, togliendo il nord. Perfino il colore è cambiato, il verde ormai è superato.
E’ aperta una contraddizione evidente tra la spinta per la secessione delle regioni ricche e l’ambizione di Salvini di diventare un partito nazionale e di crescere in tutto il paese, fino a definirsi come un partito sovranista, quindi nazionale, al punto da parlare di difesa dei confini nazionali e di polemizzare con l’Europa in nome dell’Italia.
Se guardiamo la lista delle 23 materie chieste dal Veneto troviamo questioni di fondo: salute, scuola, ambiente, lavoro, infrastrutture, demanio statale e soprattutto nuove risorse, partendo da quelle che sono nel bilancio dello Stato e puntando a incrementi successivi che renderebbero impossibile aiutare le regioni più deboli e farebbero saltare i conti pubblici.
I referendum regionali svolti in Lombardia e Veneto sono solo un alibi. La Corte costituzionale aveva già tagliato le unghie ai quesiti secessionisti, altrimenti i referendum di Lombardia e Veneto non sarebbero stati possibili. Quindi invocarli come un viatico popolare a sostegno delle pressioni delle due regioni è una balla.
E’ sotto gli occhi di tutti la forte contraddizione tra la Lega Nord delle origini, che da sempre coltiva suggestioni secessioniste, e la Lega di Salvini che invece punta a costruire un partito di destra nazionale e sovranista.
La contraddizione è talmente evidente che è ragionevole chiedersi come mai l’opposizione e in particolare quella più o meno di sinistra non scateni uno scontro all’altezza della sfida e dei pericoli per il futuro dell’Italia come nazione.
La ragione probabilmente sta nell’origine della modifica del titolo V della Costituzione, che il centro sinistra - purtroppo - votò a stretta maggioranza poco prima della fine della legislatura nel 2001 per inseguire le lucciole leghiste, salvo poi essere comunque sconfitto alle elezioni politiche poche settimane dopo.
E’ ormai quasi una regola che ogni volta che qualcuno copia idee, proposte, atteggiamenti altrui, rinunciando alla propria diversità, gli elettori votano per l’originale ritenendolo preferibile ll’imitazione.
Inoltre il Governo Gentiloni non ha trovato di meglio, quando ormai era alla scadenza del suo mandato, di fare ambigue preintese con le regioni che hanno ringalluzzito i disegni secessionisti.
Forse si deve a questo percorso se l’opposizione di sinistra è silenziosa o almeno non chiassosa quanto dovrebbe nell’opporsi con chiarezza a questo disegno della Lega. Anche il M5S ha fin qui subito e c’è da temere che continuerà a subire, malgrado alcune recenti dichiarazioni di Di Maio, che ci ha abituato a dei NO che evolvono, a volte con rapidità, nel loro contrario, quindi ad un Si. Basta pensare all’autorizzazione a processare Salvini, richiesta dal tribunale dei Ministri di Catania, che verrà votata tra pochi giorni al Senato, su cui è stato invocato l’improbabile alibi della consultazione degli iscritti attraverso la piattaforma Rousseau per votare contro. Questo è servito solo a tentare di condizionare/blindare il voto dei senatori del Movimento.
Il Pd in particolare dovrebbe riflettere, subito dopo le primarie, se non sia il caso di fare i conti con gli errori del passato e con semplicità impegnarsi a contrastare il regionalismo differenziato targato Lega. In Basilicata si voterà tra un mese e questa posizione, dopo un’operazione verità, potrebbe consentire di recuperare credibilità, proprio in quella regione dove qualche problema c’è.
In ogni caso sono tanti e tante in Italia che hanno capito la posta in gioco e non avendo scheletri nell’armadio possono impegnarsi per tentare di bloccare questo disegno leghista, che per di più cozza contro i principi fondamentali della prima parte della Costituzione che prevede diritti che non sarebbero più in pratica gli stessi in tutta Italia perchè dipendenti dalla regione di residenza.
La destra di opposizione, si fa per dire, non si oppone con convinzione, perchè nel programma elettorale del centro destra l’autonomia differenziata era presente ma – attenzione - accompagnato da quanto sta molto a cuore a Forza Italia e agli altri partiti di destra minori: il presidenzialismo. Il presidenzialismo è un vecchio obiettivo della destra italiana e ora ritorna nascosta dietro l’autonomia differenziata. Questo regionalismo targato Lega cozza con i diritti fondamentali della prima parte della Costituzione che garantisce gli stessi diritti a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di residenza e per di più è obiettivamente sovversivo verso la Costituzione italiana, la democrazia in essa prevista e degli equilibri da essa previsti. Presidenzialismo è uguale ad un uomo solo al comando. Non ci vuole molta fantasia a capire perchè Salvini sia tanto interessato ad aprire questo scenario, spera di cogliere il risultato più ambito. il Presidenzialismo, dopo anche Di Maio non servirà più e Salvini finalmente potrà candidarsi.
Chiaro lo scenario ? Vogliamo aiutare Salvini in questo percorso ?

4 commenti

  • 1 Aladin
    10 Marzo 2019 - 10:26

    Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=94382

  • 2 Tonino Dessì
    10 Marzo 2019 - 12:55

    Caro Andrea, ti mando questa riflessione sulla situazione politica. Fammi sapere.
    Ciao. Tonino.
    …..
    Sardegna dopo le elezioni. Un difficile “che fare?”.
    Di Tonino Dessì.
    La prevedibile modestia del discorso di Massimo Zedda e la mestizia della platea evidenziata dalle riprese televisive dell’Assemblea di Fordongianus anticipano la cifra prevedibile del centrosinistra nella legislatura regionale che si aprirà non appena avrà termine l’incredibilmente lento scrutinio delle schede elettorali, nel quale gli uffici giudiziari stanno supplendo al flop dei seggi ordinari.
    Per inciso, dalle notizie ufficiose che si hanno, più che i difetti della legge, molto sembra aver inciso nel flop l’impreparazione dei presidenti di seggio.
    L’interpretazione dei segni tracciati dagli elettori, anche in un sistema che ammette l’irragionevole pratica del voto disgiunto, non consente materialmente troppe incertezze: sembra tuttavia che si sia verificata una diffusa confusione più logica che giuridica.
    Tornando alla politica, i numeri comunque non lasciano spazi a illusioni: nonostante l’apertura tutta di circostanza al M5S fatta da Zedda, l’opposizione in Consiglio regionale non avrà campo di gioco.
    Potrà solo contare sulle possibili contraddizioni interne ai gruppi di una maggioranza variegata, nella quale tuttavia il peso del gruppo del PSd’Az si aggiungerà a quello (c’è davvero poco da ironizzare, almeno sul piano politico e istituzionale) del Presidente che di quel partito è diretta espressione.
    Il sistema maggioritario, l’elezione diretta e la regola del simul stabunt aut simul cadent blindano il quadro politico e non accadrà in Sardegna quel che rischia di accadere a Roma, dove su una questione di importanza non capitale, ma di forte significato simbolico, potrebbe giocarsi l’esistenza del Governo.
    Non che anche su quel terreno ci sia da aspettarsi quello che molti si aspettano abbastanza ingiustificatamente, ossia un capovolgimento parlamentare delle alleanze.
    Zingaretti è da questo punto di vista ripartito da dove Renzi, fra marzo e giugno dello scorso anno, aveva inchiodato il PD.
    La posizione sulla TAV conferma un orizzonte del centrosinistra italiano più vicino alle istanze del centrodestra che a quelle del M5S.
    E il M5S più che la Lega resta l’avversario strutturale, per motivi di competizione direi sullo spazio fisico del consenso, persino indipendentemente da programmi e valori.
    Il fatto è tuttavia che, nonostante lo scontro interno alla maggioranza governativa, permane, nella stessa inquietudine dell’elettorato di riferimento, che diversi osservatori riferiscono rivolta al destino di provvedimenti come il reddito di cittadinanza e il nuovo istituto della pensione anticipata, la convinzione che la prosecuzione dell’attuale formula di governo sia largamente preferibile al ritorno al governo in qualunque forma del PD e del suo sistema satellitare, per non parlare di un eventuale nuovo governo tecnico, il cui avvento suonerebbe come il rintocco di una campana funebre.
    A ben vedere dal referendum del dicembre 2016 (mi costa ammetterlo, ma l’onestà intellettuale lo impone), alla successiva serie (per dir la verità anticipata fin dal 2014 dalle tornate amministrative), delle elezioni politiche e delle elezioni regionali abruzzesi e sarde, il segno resta inequivocabile.
    Questo centrosinistra italiano e quello sardo, la stragrande maggioranza degli elettori non li considera capaci di riformarsi nè di dare risposta ai problemi anzitutto sociali che gravano sul Paese.
    Le elezioni sarde da questo punto di vista son state drastiche: nessun travestimento o imbellettamento ha deviato il senso comune prevalente.
    Può non piacere a molti, ma ancora oggi prevale il sollievo e il senso del pericolo scampato.
    Poi, ovviamente, verrà il tempo della presa di contatto con la nuova realtà e non è detto che essa sarà migliore.
    La conoscenza diretta del milieu di personale che la destra ha costantemente messo in circolazione nelle esperienze di governo della Regione, soprattutto, non induce ad alcun ottimismo.
    Però nemmeno questo può darsi pregiudizialmente per scontato. Ai più non parranno sensibilmente peggiori dei loro avversari “ufficiali”.
    In una simile prospettiva non è facile entrare nei panni di chi attivamente si chiede “che fare?”.
    Penso che su molti temi (ambiente -urbanistica in senso stretto, credo, meno- diritti sociali, forse fra questi anche sanità, se non si resterà frastornati dalla nuova girandola della riforma annunziata della riforma della Giunta Pigliaru, vertenze economiche e occupazionali, temi civili generali), la società organizzata, i movimenti e l’opinione pubblica, come al solito, anche nell’Isola faranno di necessità virtù, assumendo le proprie iniziative e manifestando il proprio peso autonomamente.
    Sul terreno dei soggetti politici, al netto dell’inevitabile influenza che continueranno ad avere sulla Sardegna le dinamiche del quadro politico centrale e le evoluzioni dei partiti di matrice italiana, resta il tempo di un quinquennio libero da incombenze elettorali ordinarie, per riflettere sull’attualità, sull’utilità e sulla praticabilità della costruzione di una forma della politica democratica organizzata specificamente sarda.
    Ma la condizione preliminare non è nemmeno, ancora, il superamento volontaristico delle sigle (fatte salve alcune personalità che le animano, tanto vivaci e direi ancora indispensabili, quanto controverse e fra loro purtroppo in perenne competizione, le sigle non rappresentano quasi nulla, se si esclude il PSd’Az, che tuttavia dobbiamo rassegnarci a vedere assorbito per un quinquennio dai problemi che gli ha consegnato il risultato delle elezioni), quanto la capacità di un mondo più ampio, interessato a rivitalizzare la questione sarda nella sua dimensione contemporanea, di rimettersi tutto in discussione e di prospettare aperture, alleanze, innovazioni culturali e politiche suggestive, mobilitanti, concrete.
    Non c’è fretta, però ci vogliono volontà, studio, buone pratiche, obiettivi corrispondenti a reali bisogni della società sarda contemporanea, gusto per sfide non scontate.
    Chiudo con una franca precisazione: quanto ho scritto mi proviene tutto dalla logica razionale e, soprattutto nell’ultima parte, non esprime alcuna volontà di ingresso in dinamiche politiche altrui nè intende inoltrarsi in previsioni pregiudizialmente pessimiste o volontaristicamente ottimiste.
    Veda, chi può e chi vuole, cosa fare del mio ennesimo contributo.

  • 3 Tonino Dessì
    10 Marzo 2019 - 14:39

    NB.
    10 Marzo 2019 - h. 13.38
    SOSTITUISCE IL PRECEDENTE.

    Caro Andrea, ti rimando la mia riflessione sulla situazione politica. Fammi sapere.
    Ciao. Tonino.
    …..
    Sardegna dopo le elezioni. Un difficile “che fare?”.
    Di Tonino Dessì.

    La prevedibile modestia del discorso di Massimo Zedda e la mestizia della platea evidenziata dalle riprese televisive dell’Assemblea di Fordongianus anticipano la cifra prevedibile del centrosinistra nella legislatura regionale che si aprirà non appena avrà termine l’incredibilmente lento scrutinio delle schede elettorali, nel quale gli uffici giudiziari stanno supplendo al flop dei seggi ordinari.
    Per inciso, dalle notizie ufficiose che si hanno, più che i difetti della legge, molto sembra aver influito nel flop l’impreparazione dei presidenti di seggio.
    L’interpretazione dei segni tracciati dagli elettori, anche in un sistema che ammette l’irragionevole pratica del voto disgiunto, non consente materialmente troppe incertezze: sembra tuttavia che si sia verificata una diffusa confusione più logica che giuridica.
    Tornando alla politica, i numeri comunque non lasciano spazi a illusioni: nonostante l’apertura tutta di circostanza al M5S fatta da Zedda, l’opposizione in Consiglio regionale non avrà campo di gioco.
    Potrà solo contare sulle possibili contraddizioni interne ai gruppi di una maggioranza variegata, nella quale tuttavia il peso del gruppo del PSd’Az si aggiungerà a quello (c’è davvero poco da ironizzare, almeno sul piano politico e istituzionale) del Presidente che di quel partito è diretta espressione.
    Il sistema maggioritario, l’elezione diretta e la regola del simul stabunt aut simul cadent blindano il quadro politico e non accadrà in Sardegna quel che rischia di accadere a Roma, dove su una questione di importanza non capitale, ma di forte significato simbolico, potrebbe giocarsi l’esistenza del Governo.
    Non che anche su quel terreno ci sia da aspettarsi quello che molti si aspettano abbastanza ingiustificatamente, ossia un capovolgimento parlamentare delle alleanze.
    Zingaretti è da questo punto di vista ripartito da dove Renzi, fra marzo e giugno dello scorso anno, aveva inchiodato il PD.
    La posizione sulla TAV conferma un orizzonte del centrosinistra italiano più vicino alle istanze del centrodestra che a quelle del M5S.
    E il M5S più che la Lega resta l’avversario strutturale, per motivi di competizione direi sullo spazio fisico del consenso, persino indipendentemente da programmi e valori.
    Il fatto è tuttavia che, nonostante lo scontro interno alla maggioranza governativa, permane, nella stessa inquietudine dell’elettorato di riferimento, che diversi osservatori riferiscono rivolta al destino di provvedimenti come il reddito di cittadinanza e il nuovo istituto pensionistico anticipato, la convinzione che la prosecuzione dell’attuale formula di governo sia largamente preferibile al ritorno al governo in qualunque forma del PD e del suo sistema satellitare, per non parlare di un eventuale nuovo governo tecnico, il cui avvento suonerebbe come il rintocco di una campana funebre.
    A ben vedere dal referendum del dicembre 2016 (mi costa ammetterlo, ma l’onestà intellettuale lo impone), alla successiva serie (per dir la verità anticipata fin dal 2014 dalle tornate amministrative), delle elezioni politiche e delle elezioni regionali abruzzesi e sarde, il segno resta inequivocabile.
    Questo centrosinistra italiano e quello sardo, la stragrande maggioranza degli elettori non li considera capaci di riformarsi nè di dare risposta ai problemi anzitutto sociali che gravano sul Paese.
    Le elezioni sarde da questo punto di vista son state drastiche: nessun travestimento o imbellettamento ha deviato il senso comune prevalente.
    Può non piacere a molti, ma ancora oggi prevale il sollievo e il senso del pericolo scampato.
    Poi, ovviamente, verrà il tempo della presa di contatto con la nuova realtà e non è detto che essa sarà migliore.
    La conoscenza diretta del milieu di personale che la destra ha costantemente messo in circolazione nelle esperienze di governo della Regione, soprattutto, non induce ad alcun ottimismo.
    Però nemmeno questo può darsi pregiudizialmente per scontato. Ai più non parranno sensibilmente peggiori dei loro avversari “ufficiali”.
    In una simile prospettiva non è facile entrare nei panni di chi attivamente si chiede “che fare?”.
    Penso che su molti temi (ambiente -urbanistica in senso stretto, credo, meno- diritti sociali, forse fra questi anche sanità, se non si resterà frastornati dalla nuova girandola della riforma annunziata della riforma della Giunta Pigliaru, vertenze economiche e occupazionali, temi civili generali), la società organizzata, i movimenti e l’opinione pubblica, come al solito, anche nell’Isola faranno di necessità virtù, assumendo le proprie iniziative e manifestando il proprio peso autonomamente.
    Sul terreno dei soggetti politici, al netto dell’inevitabile influenza che continueranno ad avere sulla Sardegna le dinamiche del quadro politico centrale e le evoluzioni dei partiti di matrice italiana, resta il tempo di un quinquennio libero da incombenze elettorali ordinarie, per riflettere sull’attualità, sull’utilità e sulla praticabilità della costruzione di una forma della politica democratica organizzata specificamente sarda.
    Ma la condizione preliminare non è nemmeno, ancora, il superamento volontaristico delle sigle (fatte salve alcune personalità che le animano, tanto vivaci e direi ancora indispensabili, quanto controverse e fra loro purtroppo in perenne competizione, le sigle non rappresentano quasi nulla, se si esclude il PSd’Az, che tuttavia dobbiamo rassegnarci a vedere assorbito per un quinquennio dai problemi che gli ha consegnato il risultato delle elezioni), quanto la capacità di un mondo più ampio, interessato a rivitalizzare la questione sarda nella sua dimensione contemporanea, di rimettersi tutto in discussione e di prospettare aperture, alleanze, innovazioni culturali e politiche suggestive, mobilitanti, concrete.
    Non c’è fretta, però ci vogliono volontà, studio, buone pratiche, obiettivi corrispondenti a reali bisogni della società sarda contemporanea, gusto per sfide non scontate.
    Chiudo con una franca precisazione: quanto ho scritto mi proviene esclusivamente dalla logica razionale e, soprattutto nell’ultima parte, non esprime alcuna volontà di ingresso in dinamiche politiche altrui nè intende inoltrarsi in previsioni pregiudizialmente pessimiste o volontaristicamente ottimiste.
    Veda, chi può e chi vuole, cosa fare del mio ennesimo contributo.
    È gratuito, come sempre.

  • 4 Tonino Dessì
    10 Marzo 2019 - 14:52

    SCUSA ANDREA, TE NE RIMANDO L’ULTIMA VERSIONE.
    CIAO. Tonino.
    ……
    Sardegna dopo le elezioni. Un difficile “Che fare?”.
    Di Tonino Dessì.

    La modestia tutt’altro che sorprendente del discorso di Massimo Zedda e la mestizia della platea evidenziata dalle riprese televisive dell’’assemblea di Fordongianus anticipano la cifra prevedibile del centrosinistra nella legislatura regionale che si aprirà non appena avrà termine l’incredibilmente lento scrutinio delle schede elettorali, nel quale gli uffici giudiziari stanno supplendo al flop dei seggi ordinari.
    Per inciso, dalle notizie ufficiose che si hanno, più che i difetti della legge, molto sembra aver influito nel flop l’impreparazione dei presidenti di seggio.
    L’interpretazione dei segni tracciati dagli elettori, anche in un sistema che ammette l’irragionevole pratica del voto disgiunto, non consente materialmente troppe incertezze: sembra tuttavia che si sia verificata una diffusa confusione più logica che giuridica.
    Tornando alla politica, i numeri comunque non lasciano spazi a illusioni: nonostante l’apertura tutta di circostanza al M5S fatta da Zedda, l’opposizione in Consiglio regionale non avrà campo di gioco.
    Potrà solo contare sulle possibili contraddizioni interne ai gruppi di una maggioranza variegata, nella quale tuttavia il peso del gruppo del PSd’Az si aggiungerà a quello (c’è davvero poco da ironizzare, men che meno sul piano politico e istituzionale) del Presidente che di quel partito è diretta espressione.
    Il sistema maggioritario, l’elezione diretta e la regola del simul stabunt aut simul cadent blindano il quadro politico e non accadrà in Sardegna quel che rischia di accadere a Roma, dove su una questione di importanza non capitale, ma di forte significato simbolico, potrebbe giocarsi l’esistenza del Governo.
    Non che anche su quel terreno ci sia da aspettarsi quello che molti si aspettano abbastanza ingiustificatamente, ossia un capovolgimento parlamentare delle alleanze.
    Zingaretti è da questo punto di vista ripartito da dove Renzi, fra marzo e giugno dello scorso anno, aveva inchiodato il PD.
    La posizione sulla TAV conferma un orizzonte del centrosinistra italiano più vicino alle istanze del centrodestra che a quelle del M5S.
    E il M5S più che la Lega resta l’avversario strutturale, per motivi di competizione direi sullo spazio fisico del consenso, persino indipendentemente da programmi e valori.
    Il fatto è tuttavia che, nonostante lo scontro interno alla maggioranza governativa, permane, nella stessa inquietudine dell’elettorato di riferimento, che diversi osservatori riferiscono rivolta al destino di provvedimenti come il reddito di cittadinanza e il nuovo istituto pensionistico anticipato, la convinzione che la prosecuzione dell’attuale formula di governo sia largamente preferibile al ritorno al governo in qualunque forma del PD e del suo sistema satellitare, per non parlare di un eventuale nuovo governo tecnico, il cui avvento suonerebbe come il rintocco di una campana funebre.
    A ben vedere dal referendum del dicembre 2016 (mi costa ammetterlo, ma l’onestà intellettuale lo impone), alla successiva serie (per dir la verità anticipata fin dal 2014 dalle tornate amministrative), delle elezioni politiche e delle elezioni regionali abruzzesi e sarde, il segno resta inequivocabile.
    Questo centrosinistra italiano e quello sardo, la stragrande maggioranza degli elettori non li considera capaci di riformarsi nè di dare risposta ai problemi anzitutto sociali che gravano sul Paese.
    Le elezioni sarde da questo punto di vista son state drastiche: nessun travestimento o imbellettamento ha deviato il senso comune prevalente.
    Può non piacere a molti, ma ancora oggi prevale il sollievo e il senso del pericolo scampato.
    Poi, ovviamente, verrà il tempo della presa di contatto con la nuova realtà e non è detto che essa sarà migliore.
    La conoscenza diretta del milieu di personale che la destra ha costantemente messo in circolazione nelle esperienze di governo della Regione, soprattutto, non induce ad alcun ottimismo.
    Però nemmeno questo può darsi pregiudizialmente per scontato. Ai più non parranno sensibilmente peggiori dei loro avversari “ufficiali”.
    In una simile prospettiva non è facile entrare nei panni di chi attivamente si chiede “che fare?”.
    Penso che su molti temi (ambiente -urbanistica in senso stretto, credo, meno- diritti sociali, forse fra questi anche sanità, se non si resterà frastornati dalla nuova girandola della riforma annunziata della riforma della Giunta Pigliaru, vertenze economiche e occupazionali, temi civili generali), la società organizzata, i movimenti e l’opinione pubblica, come al solito, anche nell’Isola faranno di necessità virtù, assumendo le proprie iniziative e manifestando il proprio peso autonomamente.
    Sul terreno dei soggetti politici, al netto dell’inevitabile influenza che continueranno ad avere sulla Sardegna le dinamiche del quadro politico centrale e le evoluzioni dei partiti di matrice italiana, resta il tempo di un quinquennio libero da incombenze elettorali ordinarie, per riflettere sull’attualità, sull’utilità e sulla praticabilità della costruzione di una forma della politica democratica organizzata specificamente sarda.
    Ma la condizione preliminare non è nemmeno, ancora, il superamento volontaristico delle sigle (fatte salve alcune personalità che le animano, tanto vivaci e direi ancora indispensabili, quanto controverse e fra loro purtroppo in perenne competizione, le sigle non rappresentano quasi nulla, a parte il PSd’Az, che tuttavia dobbiamo rassegnarci a vedere assorbito per un quinquennio dai problemi che gli ha consegnato il risultato delle elezioni), quanto la capacità di un mondo più ampio, interessato a rivitalizzare la questione sarda nella sua dimensione contemporanea, di rimettersi tutto in discussione e di prospettare aperture, alleanze, innovazioni culturali e politiche suggestive, mobilitanti, concrete.
    Non c’è fretta, però ci vogliono volontà, studio, buone pratiche, obiettivi corrispondenti a reali bisogni della società sarda contemporanea, gusto per sfide non scontate.
    Chiudo con una franca precisazione: quanto ho scritto mi proviene esclusivamente dalla logica razionale e, soprattutto nell’ultima parte, non esprime alcuna volontà di ingresso in dinamiche politiche altrui nè intende inoltrarsi in previsioni pregiudizialmente pessimiste o volontaristicamente ottimiste.
    Veda, chi può e chi vuole, cosa fare del mio ennesimo contributo.
    È gratuito, come sempre.

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